Polibio e la ragione sotterranea delle cose

Nelle parti giunte sino a noi del Libro XII delle sue Storie, Polibio rivolge una lunga serie di critiche ad alcuni storici dei secoli precedenti, i cui testi aveva tuttavia tenuto ben presente nello scrivere il suo. Sostiene, in questo contesto, una teoria sullo scriver di storia. 
Precisiamo che Polibio, come Tucidide, è stato un uomo politico e un militare, ha partecipato a varie campagne di primaria importanza in Africa e altrove e in generale conosce bene i territori di cui parla per averli visti di persona e per averli esaminati con gli occhi di un militare. In politica e in guerra è uno del mestiere, come lo era Tucidide. I due storici hanno in comune anche una solida preparazione filosofica, in epoche diverse e sullo sfondo di teorie che hanno poco in comune tra loro: Tucidide riflette l’epoca delle inquietudini dei Sofisti, Polibio ha a disposizione strumenti di analisi molto raffinati, forniti dalla scuola aristotelica nel cui contesto si è formato. La loro idea di natura è tuttavia simile: ha delle leggi, e vanno identificate. Sono invarianti, e l’uomo non fa eccezione, sicché si può fare scienza della natura come scienza della politica. Aristotele chiarisce perché il rigore non può essere lo stesso, essendo l’una scienza teoretica, l’altra scienza pratica. Tucidide sembra pensare che la politica può ammalarsi, ma questo non diminuisce il rigore della scienza: anche in natura ci si ammala, la malattia non appartiene ad un’altra sfera del reale. La sua epoca è quella, ippocratica, della medicina razionale. Quanto a Polibio, il parallelismo tra storiografia e medicina è espressamente proposto (Storie, 25d-e).
Polibio sostiene una tesi molto precisa. Il lavoro dello scrittore di storia si compone di tre parti, egualmente importanti, ma se una manca o è carente l’opera storiografica sarà carente:
– chi scrive di storia deve conoscere documenti e narrazioni relative al suo oggetto di studio; deve essere informato di tutto, nessun documento o narrazione esclusa, e deve saper valutare questi materiali; l’ideale è la conoscenza diretta delle fonti, di persona e attraverso la vista e l’udito, il che implica la capacità di interrogare chi sa nel modo opportuno; 
– chi scrive di storia deve avere una precisa conoscenza dei luoghi e delle loro caratteristiche: la più accurata conoscenza geografica, da acquisire di persona e non solo sui libri (per via del clima e della realtà dell’esperienza umana), è una delle basi della conoscenza storica; 
– chi scrive di storia deve conoscere a fondo la vita politica e militare, per esperienza personale, perché altrimenti ha difficoltà a interpretare correttamente i documenti, con la misura e la capacità di giudizio che sono il segno del valore di uno storico. 
Polibio ritiene, per conseguenza, che i molti difetti dell’opera di Timeo di Tauromenia, che tuttavia per vari aspetti offre una narrazione accurata dei fatti, dipendono dal fatto che la sua opera storiografica è stata costruita a tavolino, senza muoversi da Atene, esclusivamente sulla base di documenti scritti e di narrazioni precedenti, avendo a disposizione biblioteche ben fornite. La sua mancanza di misura, sempre a favore della Sicilia, dipende invece dalla sua partigianeria.
Ora, perché uno storico non deve essere partigiano? Perché altrimenti la sua opera storiografica, in quanto opera storica, è inutile. La tesi di Polibio è drastica: le opere di storia hanno una funzione precisa, sono utili al fine di conoscere la realtà. Il politico, il militare, l’uomo d’azione, devono conoscere la storia, e possono conoscerla solo attraverso la mediazione dello scrittore di storia (lo storiografo). Devono conoscerla perché altrimenti non sanno com’è fatta la realtà nel cui contesto operano, e quindi più facilmente commettono errori.
Non si tratta della massima umanista che vuole cha la storia sia maestra di vita, in senso morale. Polibio è molto lontano da questa visione. Il punto è un altro: serve una precisa e scientifica conoscenza dell’uomo per operare professionalmente sull’uomo. Serve al medico per il suo lavoro, serve al politico e al militare per il loro. Tutti operano con l’uomo sull’uomo, nella natura, che ha una dimensione storica, una biologica, una geografica, e così via. Machiavelli, credo, sarebbe d’accordo.
La realtà è così, e bisogna conoscerla. Essere partigiani significa alterare la corretta descrizione della realtà. Rende la storia inutile. Necessariamente Polibio attacca frontalmente chi scrive di storia per avere successo attraverso pratiche retoriche: l’attacco dipende dal fatto che quella che oggi chiameremmo una comunicazione vincente non ha di mira la restituzione narrativa della realtà, ma opera sul piano della ricerca del successo e non sul piano della scienza delle cose e dell’uomo. Fermo restando che, seguendo Aristotele, della retorica stessa si può e si deve fare scienza perché la comunicazione umana, e quindi il linguaggio e la storia come narrazione scritta, non può non utilizzare strumenti retorici. 
Leggendo queste pagine di Polibio, scritte nel contesto del lavoro di un filosofo aristotelico che scrive di storia – e professionalmente è un uomo politico e un militare -, si rimane colpiti dal fatto che le sue tesi sono, per noi oggi, ancora oggetto attuale di riflessione. Non potrebbe non essere così: la filosofia come la scienza della natura è senza tempo, non importa assolutamente quando e come una teoria sia stata proposta, importa che descriva correttamente la realtà. Certo che esiste una dimensione storica della filosofia e una altrettanto storica dimensione della scienza, certo che nessun filosofo e nessuno scienziato è comprensibile nel suo lavoro senza intendere il tempo in cui ha operato. Ma la conoscenza della realtà che filosofi e uomini di scienza contribuiscono ad accrescere ne è indipendente – è sì dipendente per le forme linguistiche e culturali in cui è espressa, ma queste possono essere “tradotte” in altre in qualsiasi tempo si viva. 
Ora, nessun uomo in nessun tempo è al di fuori della propria cultura, e la propria cultura ha una dimensione storica. La mente umana ha, per natura direbbe Aristotele, una dimensione linguistica, ma ne ha anche una storico-culturale. La falce con cui il contadino raccoglieva il grano e la mietitrebbia di ultima generazione sono entrambe prodotti storico-culturali, e non potrebbero non esserlo perché qualsiasi prodotto dell’uomo è storico-culturale. La pietra, o la mandibola d’asino, di Caino e il missile intelligente servono alla stessa cosa: ad uccidere. 
Il circolo ermeneutico che ne deriva va quindi posto a tema e va affrontato, anche se non in questa sede. Di questo è opportuno essere coscienti.
Questo significa che la riflessione metodologica, su base filosofica, di Polibio vale oggi come ieri, nel contesto di due orizzonti storico-culturali del tutto diversi, certo, ma derivati l’uno dall’altro. Siamo, in Occidente, lontani eredi della cultura la cui storia descriviamo nei libri di storia. 
Questo  libro che il lettore ha adesso in mano è stato scritto utilizzando le risorse che la tecnologia del XXI secolo mette a disposizione sul primo punto indicato da Polibio, in estrema sintesi descritto dalla dizione esame delle fonti. Un incrocio tra biblioteche pubbliche e provate, archivi su Internet, documenti visivi, e così via, lo ha reso possibile. Ma tutta la cura possibile, in sede storica, nell’esame delle fonti non può sopperire al fatto che la maggior parte delle fonti non esistono più, e non c’è IA che possa farle tornare in vita. Lo storico di oggi non può più leggere le diverse opere di storia della Sicilia che sono state scritte tra V e IV secolo a Siracusa e ad Atene, non ha accesso ai documenti politici cartaginesi che permetterebbero di esaminare il perché delle loro scelte, e così via. 
Quanto al secondo punto, la conoscenza geografica, di persona, dei luoghi di cui si parla – nel caso di questo libro la Sicilia e il Mediterraneo – è facile averla, mentre era molto più complesso, costoso e faticoso (e non esente da pericoli) averla in antico. Ma se si viaggia nel cuore della Sicilia tra Catania e Palermo l’esperienza che se ne fa è drasticamente diversa da quella che se ne avrebbe viaggiando in antico. Un’auto che percorre un’autostrada, o le tortuose vie della Sicilia prima della fine degli anni Sessanta, non è la stessa cosa di un mezzo di trasporto dell’antichità. Né i paesaggi sono sovrapponibili: allora la Sicilia era coperta di boschi, aveva una circolazione delle acque molto diversa, e così via, ci avvertono i geografi. 
Quanto al terzo punto, siamo tutti nelle condizioni di Machiavelli lettore di Tito Livio, ma chi scrive – ed è così per lo storico dei nostri giorni, che è abitualmente un professore-scrittore e non un politico o un segretario fiorentino – non ha minimamente le competenze politiche e militari necessarie. Leggendo le descrizioni delle battaglie in Tucidide, in Polibio o in Diodoro Siculo, si prova una sensazione quasi cinematografica, da spettatori passivi, per la mancanza d’esperienza di una carica di cavalleria o dell’avanzare degli opliti in formazione. E se si è storici militari, non si è politici: viviamo in era di specializzazioni. 
Chi scrive di storia da filosofo – come hanno fatto in antico Posidonio, tre secoli fa Hume, pochi decenni fa Croce, oggi noi autori di questo volume, piccoli nani sulle spalle di giganti, e molti altri – ha un’ottica filosofica. Come Tucidide e Polibio vuole sapere com’è fatta la realtà. Ma, per l’antico, non ha altro modo per saperlo che chiederlo ai suoi maggiori. 
Questo chiedere descrive questo libro. La domanda sullo sfondo è qual è stata l’identità della Sicilia in antico. Ma loro non hanno posto questa domanda, e non hanno quindi dato una risposta. Tra tutte le moltissime domande aperte che la Sicilia dell’epoca costringe lo storico a registrare, quella sulla sua identità non è la meno importante, né la meno urgente. Ed è, appunto, una domanda aperta.