La filosofia della musica tra l’età arcaica e il V secolo a.C.

La filosofia della musica tra l’età arcaica e il V secolo

 

1. Le Muse e altri miti musicali

Nella Beozia, una regione montuosa della Grecia continentale immediatamente a nord del Peloponneso, si eleva la montagna dell’Elicona. Là avevano le loro case le Muse, e con esse il dio Apollo dirigeva i loro canti. 

 

1.1. In alto, sulle valli e le cime dell’Elicona

Le Muse erano figlie di Zeus e di Mnemosine, la dea che personifica la memoria. Erano nove e si racconta che siano state generate in nove notti d’amore. Nelle antiche tradizioni mitologiche esistevano altre genealogie, ma in tutti i casi il loro significato era simbolico: alle Muse era collegato infatti il predominio dell’armonia nell’Universo. Il legame era in particolare con la musica – la mousike techne, la tecnica (o l’arte) della Muse – perché esse avevano come propria specificità quella di cantare e allietare gli dèi, perché presiedevano su tutte le arti e sull’intera sfera della cultura: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica, astronomia e le singole arti, tutto questo era sotto l’influenza delle Muse. 

Lassù in alto (le vette dell’Elicona raggiungono poco meno dei 2000 metri) si diceva che si trovasse il Museo, un luogo dedicato alle Muse, e quindi alle arti e alle scienze a cui ciascuna di esse presiede. Lì si diceva che vi fossero conservati i testi poetici di Esiodo e in cui, come in altre istituzioni pubbliche greche, si elevavano statue a personalità del mondo delle arti.

 

1.2. La casa delle Muse

Il termine Mouseion (Museo) significa letteralmente luogo dedicato alle Muse. Secoli dopo l’epoca delle origini, istituzioni di questo tipo, che collegavano la ricerca poetica e le scienze alla religione, esistevano anche presso le grandi scuole filosofiche del IV secolo ad Atene, come l’Accademia e il Liceo. E fu proprio sul modello dell’organizzazione della ricerca del Liceo di Aristotele che i Tolomei all’inizio del secolo successivo fondarono il più celebre dei Musei dell’antichità, quello di Alessandria d’Egitto, con annessa la celebre Biblioteca di Alessandria. Nato quindi all’epoca dei Tolomei nel III secolo a.C., il Museo di Alessandria d’Egitto rimase attivo per secoli, tanto che operava ancora nell’età imperiale romana. Vi lavoravano (stipendiati con fondi pubblici come oggi accade per le grandi università e per i centri di ricerca) studiosi provenienti da tutto il mondo ellenistico prima, ed ellenistico-romano dopo. Vi si coltivavano studi di ogni tipo: letterari, filologici (celebri i grammatici alessandrini) e storici, scientifici. 

Gli intellettuali che vi lavorarono portarono avanti un complesso lavoro di ordinamento di tutto il sapere antico. Qui le discipline scientifiche, in particolare la matematica e l’astronomia, raggiunsero livelli altissimi, insuperati fino alla rivoluzione scientifica del Seicento europeo.

 

1.3. La paideia, le arti e le tecniche delle Muse

La musica (mousike techne) era quindi per eccellenza l’arte delle Muse. E la musica greca per secoli, fino all’età ellenistico-romana, venne collegata con altre arti: con la danza, in vari generi letterari, con la poesia, in quasi tutte le sue forme, con una miriade delle arti delle Muse. L’esperienza della musica era non solo dell’orecchio, ma di tutto il corpo, grazie alla danza, e della mente, perché le immagini musicali si legavano strettamente a quelle poetiche. Ed erano connesse con la medicina, perché l’armonia e il ritmo erano collegate con la guarigione (ma anche con la malattia), con l’educazione, e così via. 

A giudicare dai numerosi scritti sulla musica, quella musicale doveva essere un’esperienza molto incisiva nella vita delle persone anche comuni, se tra il V e il IV a. C. si sviluppò un dibattito, prolungatosi per decenni e molto vivace, sulla ammissibilità di questa o quella armonia ai fini educativi del popolo, e quindi ai fini politici, a causa del ruolo che la paideia greca aveva nella formazione del cittadino. Le Muse, e quindi la musica come loro specifica arte, erano d’importanza fondamentale per l’educazione. Il termine paideia è difficilmente traducibile in italiano, perché indica tutto il complesso delle pratiche e dei valori che sono decisivi per la formazione dell’uomo e del cittadino. E come sempre quando è in gioco il valore dell’uomo, l’ideale a cui l’intera società ellenica si rivolge, è controversa quale strategia pedagogica è bene seguire. Determinate forme musicali sono viste positivamente, altre negativamente. Si discute molto come educare i giovani. 

 

1.4. Il piacere e l’utile

Tutte le testimonianze dell’epoca arcaica che sono giunte sino a noi (poche, per la verità) sono concordi su un punto:  il fascino delle Muse, il cui canto è guidato da Apollo, è irresistibile. Danno piacere, il cuore ne gode, l’animo entra in molte sfere del godimento interiore. Non si tratta di un solo tipo di piacere. I Greci conoscevano diverse forme del canto e della danza, associate alla festa; altre forme associate alla guerra, i cui canti evocano l’impulso alla battaglia; e così via. In estrema sintesi, la musica era associata a diverse forme della vita, fino a identificarsi con la divinità, come accadeva nelle pratiche religiose, in particolare nelle liturgie dei Misteri, come accadeva, da tempi antichissimi, ad Eleusi. 

Il piacere della musica ha quindi tanti aspetti, ma c’è sempre, non manca mai. E poiché la musica educa (paideia) e in alcuni casi consente di superare la barriera che separa l’umano e il divino (per gli iniziati ai riti di Eleusi, per le Menadi e così via) al piacere interiore si collega l’utile, perché fa sì che l’uomo nella festa entri nella sfera superiore della vita. 

 

1.5. Ambiguità

Nella tradizione poetica arcaica le Muse non appartengono alla sfera della verità, ma alla sfera della vita piacevole e divina. Sanno dire la verità, ma sanno anche, se vogliono, raccontare mondi di sogno, lontano dal vero. Esiodo lo fa dire alle Muse in modo esplicito, proprio quando riferisce di avere imparato la verità sugli dèi e sulle loro genealogie: “Noi sappiamo dire molte menzogne  simili al vero, / ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare”. Esiodo le presenta “abili nel parlare”: gli ispirano il “canto divino” perché vogliono che lui canti il vero sulla stirpe dei beati, ma saprebbero bene come ingannare, se volessero. La musica non è garanzia della verità (se ne ricorderanno i filosofi, già con i Sofisti, poi con Platone!). Ecco il brano iniziale della Teogonia, l’opera teologica che narra come è nato il mondo e come sono nati gi dèi: 

 

Cominciamo il canto dalle Muse eliconie 

che di Elicone possiedono il monte grande e divino; 

e, intorno alla fonte scura, coi teneri piedi 

danzano, e all’altare del forte figlio di Crono; […]

Esse una volta a Esiodo insegnarono un canto bello, 

mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicone; 

questo discorso, per primo, a me rivolsero le dee,

le Muse d’Olimpo, figlie dell’egioco Zeus:

“O pastori, cui la campagna è casa, mala genia, solo ventre; 

noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, 

ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare”. 

Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, 

e come scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito, 

dopo averlo staccato, meraviglioso; e m’ispirarono il canto 

divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è, 

e mi ordinarono di cantare la stirpe dei beati, sempre viventi; 

ma esse per prime, e alla fine, sempre.

(Esiodo, Teogonia, vv. 901-906)

 

1.6. Orfeo, “il mito più significativo per la storia del pensiero musicale” 

La filosofia greca del VI e V secolo, a parte il caso che vedremo di Empedocle e di Gorgia (variamente interpretabili), non ha messo esplicitamente a tema le antiche tradizioni della sfera del magico e dell’incantesimo. Una tradizione del mito a riguardo della musica, ma separata dalle Muse, e legata all’interpretazione della musica come incantesimo ha però avuto un’influenza notevole non solo nel settore delle religioni dei Misteri, ma anche nella filosofia di Platone. È il mito di Orfeo, che abbiamo prima studiato nella più celebre delle vicende collegate alla sua vita, cioè il tentativo di strappare l’amata moglie Euridice dal regno della morte. Per essersi recato nell’oltretomba e avere quindi conosciuto le verità nascoste, ad Orfeo sono collegate varie rivelazioni. Un poeta tardo, Apollonio Rodio (III secolo a.C.) così ne presenta le rivelazioni: 

 

… E Orfeo provò un canto

con la mano sinistra levando la lira. 

E cantò come terra e cielo e mare,

dapprima congiunti a vicenda in un’unica forma, 

ciascuno, dal tutto discorde, si separò a parte;

e come per sempre  le stelle, la luna e i cammini,

del sole hanno un luogo fisso nell’etere;

e come si alzano i monti, e come i fiumi che scrosciano

nacquero insieme alle Ninfe e a tutti i viventi che strisciano sulla terra.

E poi cantò come Ofione, dapprima, e l’Oceanina

Eurìnome ebbero il potere sopra l’Olimpo nevoso; 

e come poi, con violenza, cedettero l’uno a Crono

e l’altra a Rea l’onore, e caddero sui flutti dell’Oceano; 

e questi signoreggiarono sui beati, divino Titani,

fintanto che, ancora bambino, con infantili pensieri, 

Zeus abitò sotto l’antro Dittèo, che ancora i Ciclopi, 

nati dalla Terra, non avevano temprato con il fulmine

e con il tuono e col lampo, cose che a Zeus portano gloria.

(Orfeo, B16 DK)

 

Per il pensiero musicale “il mito più celebre, più antico e forse il più significativo è senza dubbio quello di Orfeo, anche per gli sviluppi che assunse poi nel pensiero platonico. Non è il caso in questa sede di addentrarci a discutere il complesso mito di Orfeo nelle sue molteplici versioni, nelle sue numerose interpretazioni nel corso di più di due millenni. È indubbio pertanto che esso rappresenta il mito più significativo per la storia del pensiero musicale, e prova ne è la sua enorme popolarità e la sua utilizzazione da parte degli stessi musicisti. Orfeo è l’eroe mitico che ha legato indissolubilmente il canto al suono della lira; ma ciò che affascina maggiormente nel mito orfico è l’aspetto incantatorio e magico della musica. (…) La musica nel mito orfico è una potenza magica e oscura che sovverte le leggi naturali, che può riconciliare in un’unità i principi opposti su cui sembra reggersi la natura: vita e morte, male e bene, bello e brutto; queste antinomie vengono annullate e sciolte nel canto di Orfeo dalla potenza magico-religiosa della musica. (…) 

Il mito orfico non contrasta con la concezione edonistica della musica ma la approfondisce e la esalta in una sfera più alta: Orfeo con la sua lira rappresenta un richiamo di una tale potenza da fermare e mutare il normale corso degli eventi: il suo canto procura piacere, ma si tratta di un piacere di natura così particolare da tramutarsi in incantesimo, e da costringere tutti gli esseri a seguirlo come invasati da una potenza superiore’’.

 

2. La prima filosofia della musica nell’età arcaica

Non si può sostenere che la filosofia della musica abbia inizio con l’età dei poeti, che collegano la parola e i suoni secondo la mousike techne. Né Omero, né Esiodo, né i poeti lirici, corali o meno, sono filosofi, in quanto poeti. Indubbiamente nei loro canti i Greci riconoscevano la matrice della paideia – i poeti per secoli, anche molto dopo il sorgere della filosofia, erano riconosciuti come i “maestri della Grecia” – e dal VI secolo in poi i filosofi hanno due modi per confrontare il loro sapere con le narrazioni dei poeti:

– alcuni respingono le forme della comunicazione poetica: percorrono una via nuova, scrivono in prosa, enunciano teorie e “verità” ben argomentate rinunciando alla parola poetica, dunque alla musica; così i primi filosofi di Mileto, così Pitagora e i pitagorici (sono tutti originari della Ionia, in contatto con l’Oriente, Egitto compreso, e Pitagora è poi un esule, o un colono, verso la Magna Grecia); 

– altri non solo, da filosofi, non respingono affatto le forme della comunicazione poetica, ma si inseriscono pienamente nella tradizione poetica omerica, anche dal punto di vista linguistico: è una scelta compiuta nell’estremo occidente greco (Parmenide ad Elea, Empedocle ad Akragas, non sappiamo quali altre colonie, perché altri poeti-filosofi come Senofane non sono legati  ad una particolare città); ma la loro narrazione poetica – la parola e il canto, forse anche la danza – è metafora, pensiero per immagini, mentre l’argomentazione razionale è implacabile, letteralmente una catena di argomentazioni non immaginarie, non narrative, ma razionali (dunque pensiero astratto e razionale affiancato a pensiero per immagini). 

 

2.1. La nozione pitagorica di armonia

La prima filosofia della musica, forse un po’ paradossalmente, è enunciata non utilizzando né la poesia né la musica come forma di comunicazione. Pitagora si accorge che la struttura della Natura è ordinata attraverso relazioni razionali numeriche, e che i suoni e la musica esprimono questa perfetta (ai suoi occhi) razionalità. Non abbiamo di fatto nessuno scritto che risalga a Pitagora con certezza, ma tutti gli scritti dei pitagorici sono in prosa (molto tardi però, nessuna testimonianza in epoche vicine alla vita di Pitagora  ai suoi primi discepoli). Ecco in assoluto una delle prime testimonianze della storia della filosofia sul tema della musica: 

 

Tali accordi di suoni gli uni derivano dai diversi pesi, altri dalle grandezze, altri ancora dai movimenti e dai numeri, altri dai vasi. Laso di Ermione, come dicono, e il pitagorico Ippaso di Metaponto  si servivano della velocità e della lentezza dei movimenti da cui derivano gli accordi […]. Di due vasi, ambedue della stessa grandezza e della stessa forma, uno lo lasciò completamente vuoto e l’altro lo riempì a metà di liquido: percuotendoli entrambi gliene risultava l’accordo di ottava. E lasciando di nuovo uno dei vasi vuoto e riempiendo dell’altro solo la quarta parte, facendoli risuonare otteneva l’accordo di quarta, e l’accordo di quinta poi riempiendone la terza parte, poiché il rapporto dei vuoti era nell’ottava di due a uno, nella quinta di tre a due, nella quarta di quattro a tre. (Teone di Smirne, Frammenti)

Il giusto consiste nel tenere fede al giuramento e per questo Zeus viene chiamato protettore dei giuramenti. La virtù è armonia, e così pure la salute e ogni bene e la divinità. Di conseguenza anche tutte le cose sono formate secondo armonia. L’amicizia è un’uguaglianza armonica. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi)

Per quanto riguarda la natura e l’armonia le cose stanno così: la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono una conoscenza divina, non umana. Sarebbe impossibile per noi conoscere qualcosa se non tenessimo a fondamento la sostanza delle cose che formano il cosmo, cioè i limitanti e le illimitate. Ma poiché i principi erano essenzialmente non simili fra loro né omogenei, sarebbe stato impossibile che nascesse un cosmo con essi se non fosse intervenuta l’armonia, comunque ella abbia avuto origine. Ora, certo le cose simili e le omogenee non avrebbero avuto alcun bisogno di armonia: le dissimili e le eterogenee o di serie diverse hanno invece bisogno di essere collegate dall’armonia, e così possono restare unite in cosmo.

 

“La concezione pitagorica del numero quale principio delle cose è preformata nella simmetria rigorosamente geometrica del cosmo d’Anassimandro. Non è intelligibile prendendole mosse dalla mera aritmetica. Derivava, secondo la tradizione, dalla scoperta di nuove disposizioni regolari nella natura, e cioè del rapporto tra la frequenza delle vibrazioni e la lunghezza delle corde della lira. Ma, per estendere il dominio del numero a tutto il cosmo e all’ordinamento della vita umana, occorreva un’arditissima generalizzazione di quell’osservazione, che trovò indubbiamente un appoggio nel simbolismo matematico della filosofia naturale milesia. (…) Il VI secolo segna la nascita di tutte quelle meravigliose idee fondamentali dello spirito greco che sono diventate per noi come un simbolo del suo carauerc essenziale e ci appaiono inscindibili dall’esser suo. Esse non c’erano sin da principio, bensì spuntarono in una successione storicamente condizionata. Il nuovo intendimento della struttura della musica è uno dei momenti decisivi di tale svolgimento. La cognizione dell’essenza dell’armonia e del ritmo, che ne sorse, basterebbe da sola ad assicurare ai Greci l’immortalità nella storia dell’umana cultura. 

La possibilità d’applicare tale cognizione in tutti i campi della vita è quasi illimitata. Come nell’assoluta continuità causale della fede solonica nella giustizia, si schiude qui un secondo universo di rigorosa normalità. Se Anassimandro considera l’universo come un kosmos delle cose, dove regna un’assoluta, infrangibile norma di giustizia, il principio di tale kosmos nell’intuizione pitagorica del mondo si presenta quale armonia. (…) 

Nell’idea dell’armonia si fa cosciente l’aspetto strutturale della normalità cosmica. L’armonia si esprime nella relazione delle parti col tutto, che si basa sul concetto matematico di proporzione, il quale si presenta nel pensiero greco in una forma che ha evidenza geometrica. Quando si parla dell’armonia dell’universo, trattasi d’un concetto complesso, nel quale è compreso cosè il significato musicale, l’idea del bell’accordo dei suoni, come quella di un rigore numerico e di una regolarità geometrica. Immensa è l’efficacia dell’idea di armonia su ogni aspetto della vita greca nei tempi ulteriori”. (W. Jaeger, Paideia, I, pp. 305-309)

 

2.2. Damone e la musica come medicina dell’anima

Il primo Pitagorismo ebbe grande diffusione in Italia Meridionale e in Sicilia tra il VI e il V secolo, poi la sua influenza si estese in altre aree della Grecia. Alla metà del V secolo tra le più importanti figure sui temi musicali orientati dal Pitagorismo troviamo la figura di Damone, in ambiente ateniese e a stretto contatto con Pericle, ma purtroppo ci sono rimaste soltanto poche testimonianze. 

Il campo di studi tipico di Damone è il rapporto tra i vari generi musicali e l’effetto che essi hanno sull’anima dell’uomo e sulla formazione. Il campo problematico è quindi sia di tipo politico che pedagogico. 

 

Il musicista Damone, trovatosi presente mentre una flautista suonava in modo frigio ad alcuni giovinetti che, eccitati dal vino, si abbandonavano ad atti folli, le ordinò di suonare al modo dorici; e quelli immediatamente cessarono la loro agitazione insensata. (Damone, fr. A8 DK)

Damone con la sua scuola insegnava che i suoni di una frase melodica, per assimilazione, creano nei fanciulli delle tendenze che essi non posseggono ancora, e, negli adulti, sviluppano quelle latenti. Di fatto, nelle armonie da lui tramandate è possibile osservare che dei vari suoni,  ora i femminili, ora i maschili, o predominano o sono in minoranza o addirittura mancano. Questa è una evidente prova che diversi suoni hanno un’influenza utile sulle anime, a seconda dell’indole di ciascuna di esse. (Damone, fr. B7 DK)

Damone dice che non bisogna introdurre alcun genere nuovo di musica perché è un rischio grandissimo. Non accade infatti che si mutino i modi musicali senza mutare le leggi politiche fondamentali. (Damone, fr. B10 DK)

“Il valore (…) che caratterizzava l’antica mousike si precisa nel Pitagorismo anche in senso psicologico, sviluppandosi nell’idea della musica come medicina dell’anima. Il potere della musica di muovere l’anima sollecitando o placando le affezioni e i turbamenti ebbe un significato enorme nella cultura greca classica, e nell’et di Pericle il filosofo e politico Damone, di scuola pitagorica, dette avvio a una vera e propria teoria etica della musica, elaborando la dottrina dell’ethos musicale, cioè della corrispondenza fra specifici generi musicali (…) e determinati caratteri o stati d’animo”.  (C. Panti, Filosofia della musica, p. 17)

 

La ragione filosofica di questo legame tra la mousike come pratica dei suoni e le disposizioni dell’anima dipende dalla teoria pitagorica della dinamica interna di ogni cosa nell’universo, anima compresa. Questa dinamicità risponde a rapporti numerici e caratterizza l’esistenza nella sua natura profonda. È quindi osservabile l’influsso tra le diverse armonie, che si imitano e bilanciano. In estrema sintesi, così come vibra la corda della lira, anche l’anima vibra in modo analogo. 

“Mentre l’interpretazione religiosa della musica rimase un’idea specificamente orfica e pitagorica, la sua interpretazione psicologica, etica cd educativa conobbe una vasta diffusione tra i Greci. Essa oltrepassò i confini della scuola e del gruppo dei Pitagorici, e si estese persino al di fuori degli stati dorici. È vero che fu criticata dai pensatori empiristi ionici, a cui essa appariva troppo mistica, ma i loro attacchi provocarono una reazione di difesa nel l’Atene del V secolo. Qui Damone fu il più strenuo difensore della teoria pitagorica. In questo periodo, il problema perse parte della sua importanza teorica, per assumere, invece, un rilievo politico e sociale. Damone fu attivo verso la metà del V secolo; i suoi scritti non ci sono pervenuti, ma conosciamo il contenuto del suo Areopagitico; in esso egli mette in guardia (…) contro le innovazioni nella musica a causa dei pericoli sociali cd educativi che comportano. Basandosi sulla dottrina pitagorica, Damone dimostra che la musica è in rapporto con l’anima umana, ed è quindi di grande valore ai fini dell’educazione pubblica. Un ritmo appropriato è segno di una vita spirituale ordinata e ci insegna a realizzare 1’armonia dell’anima. Egli sostiene che il canto e la pratica di uno strumento musicale insegnano ai giovani non soltanto il coraggio e la moderazione, ma anche la giustizia; secondo lui qualsiasi mutamento nelle forme della musica potrebbe avere effetti talmente profondi da provocare inevitabilmente un mutamento persino nella forma di governo”. (W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, I, p. 114)

 

2.3. La musica delle stelle

Probabilmente dal punto di vista pedagogico le posizioni di Damone sono importanti, come saranno per Platone. Tuttavia la filosofia pitagorica della musica ha, per così dire, tre diversi ambiti strettamente collegati tra loro, ed è questo legame l’unità della teoria. 

Un primo ambito riguarda la fisica, o se si preferisce quel che oggi chiamiamo struttura della materia: la regola interna che governa la physis è esprimibile in termini numerici e, come abbiamo visto, la musica ne esprime quel genere di relazioni quantitative che appartiene non solo al regno dei suoni ma all’intera sfera della Natura. 

Un secondo ambito riguarda la psyche umana, perché l’uomo è espressione della Natura, come abbiamo visto con Damone.

Un terzo ambito riguarda i Cieli, a cui l’osservazione degli antichi è comunemente molto superiore alla nostra. Non ci riferiamo certo agli scienziati del nostro tempo, che hanno possibilità tecniche enormemente superiori al passato che consentono osservazioni estremamente sofisticate; ci riferiamo invece alla vita quotidiana di tutti noi moderni, per i quali il cielo (al singolare, diversamente dai Cieli degli antichi, al plurale) è di fatto oscurato dall’inquinamento delle luci accese nella notte sulla Terra. Non vediamo quasi nulla, se non in condizioni particolari, della Via Lattea, comunemente visibile ancora oggi quando ci si trova in zone non inquinate dalle luci, e comunemente osservabili nell’antichità; e così vale per i pianeti, per la miriade di stesse e costellazioni. I Pitagorici hanno concepito l’universo come un Kosmos: “Dal momento che erano convinti che l’universo fosse costruito armoniosamente, i pitagorici gli diedero il nome di kosmos, cioè ordine, introducendo così una caratteristica estetica nella cosmologia e nel termine impiegato per designarla. Sul tema dell’armonia cosmica, essi si abbandonarono a speculazioni di vasta portata. Dato che secondo loro ogni movimento regolare produce un suono armonioso, essi pensavano che l’intero universo generasse una musica delle sfere, una sinfonia che non possiamo percepire soltanto perché risuona ininterrottamente. Da questa premessa essi deducevano che anche la struttura del mondo doveva essere regolare e armoniosa: la sfera possiede questa qualità e perciò essi concludevano che il mondo doveva essere sferico. La loro estetica permeava anche il campo della psicologia; immaginando le anime simili ai corpi, essi ritenevano perfette le anime costruite armoniosamente, quelle cioè in cui vi è una congrua proporzione delle parti”. (W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, I, p. 109).

Questa teoria ha avuto un influsso molto lungo nel tempo, e la ritroveremo anche nella filosofia della musica dell’età medioevale. Abbiamo pochi e parziali frammenti greci, e poche testimonianze. Invece una esposizione molto celebre è nel mondo latino: mutuando dalle filosofie ellenistiche la teoria della musica delle sfere, secoli dopo i Pitagorici, Cicerone racconta un celebre sogno, posto al termine del suo trattato De re publica (54 a.C.). Immagina che a parlare nel sonno sia Scipione Emiliano, vissuto un secolo prima di lui, e racconta il suo dialogo col nonno Scipione l’Africano là nei Cieli. Tra le altre cose, l’Africano ricorda la musica dei Cieli: 

 

Non appena mi riebbi, dopo essere rimasto a lungo ad ammirare: «Che cosa è mai? – dissi – Cos’è questo suono così forte e tuttavia così dolce che riempie le mie orecchie?» 

«Questo suono – mi rispose – è l’accordo di tonalità diverse, ma regolate da rapporti costanti, che nasce dal movimento e dalla vibrazione delle sfere celesti e, alternando armonicamente i toni acuti con i toni bassi, produce questa musica variamente modulata. Movimenti così rapidi e grandiosi non possono infatti compiersi in silenzio, ed è naturale che i cieli estremi producano suoni diversi tra loro. Per questo motivo la sfera delle stelle fisse, che è la più alta e ruota più velocemente, produce il suono più acuto e vibrante; mentre la sfera della Luna, che è la più bassa, e quindi la più lenta, emette il suono più grave: la Terra infatti, che rimane immobile al nono posto, è sempre fissa nella sua posizione e racchiude in sé il centro dell’universo. Le otto sfere, di cui due hanno la stessa velocità, producono quindi sette suoni di diversa tonalità; e quel numero è, per così dire, il vincolo che tiene unite tutte le cose. 

Imitando col suono delle corde e col canto la soave armonia delle sfere celesti, non meno di quei nobili ingegni che nella vita terrena coltivarono studi divini, i grandi musici si aprirono la via del ritorno a queste sedi beate.  Il fragore dei cieli che ruotano ha stordito e assordato gli uomini, così che non v’è altro senso in voi che sia più debole dell’udito. Non diversamente le popolazioni insediate presso Catadupa, dove il Nilo precipita da altissimi monti, per il fragore assordante della cascata sono rimaste prive dell’udito. Così grande è infatti il suono prodotto dalla rapidissima rotazione dell’universo che gli uomini non possono percepirlo, come non possono fissare la luce del Sole, perché i loro occhi sono abbagliati dal fulgore dei suoi raggi». (Cicerone, De Re Publica, Il Sogno di Scipione)

 

3. In sintesi: il campo problematico della filosofia della mousike nell’epoca delle origini

Se proviamo a osservare unitariamente i temi che compongono in tutta la sua estensione il campo problematico della filosofia della musica, dobbiamo subito sottolineare che per tutta la filosofia greca – e nelle sue articolazioni romane fino all’epoca di Boezio, alla fine dell’età tardo-antica – il campo problematico rimase unitario. Dunque per undici o dodici secoli la tradizioni delle origini ebbe ampia continuità. 

In estrema sintesi: 

– rispetto all’epoca di Esiodo, quando la musike nella mitologia rimandava al complesso dell’attività delle Muse, già la filosofia delle origini, con i Pitagorici, restrinse i temi della filosofia della musica, ma di poco; il campo problematico rimase comunque molto esteso; 

– infatti già con i Pitagorici il campo problematico riguardava unitariamente, e non per analisi separate, sia la sfera della sensibilità e della percezione (dunque il suono) sia la sfera dell’intelletto, capace di andare oltre il visibile e indagare le strutture e i rapporti matematici sottesi al visibile e all’udibile; 

– la sensibilità (non solo uditiva perché la musike comprendeva anche la danza e la tecnica sugli strumenti) e l’intelletto vennero concepite unitariamente in base al principio che la realtà è una sola ed è regolata dalle stesse leggi; il mondo dei paradossi di Zenone rimase al di fuori della tradizione della filosofia della musica, che rimase coerente con la concezione dell’armonia originariamente definita già dagli Ionici (si pensi all’armonia dell’arco e della lira già per Eraclito); 

– il campo problematico venne quindi esteso alla medicina così come alla pedagogia, perché la musica ha la stessa origine nel regno dell’armonia e delle proporzioni, identiche per la realtà fisica (il kosmos) e per l’anima umana; 

– per conseguenza, la filosofia politica veniva collegata ai temi pedagogici, nel contesto di una teoria del Tutto; 

– e, ovviamente, la complessa via di ricerca dell’astronomia seguiva gli stessi principi di ordine, espressi dalla nozione di kosmos, su base matematica;

– in ultimo, permaneva la comune convinzione che la sfera della musike sia associata al piacere, e dunque andava filosoficamente indagata la radice, nell’anima, del piacere.

Né, certo, può essere dimenticato che il termine mousike, almeno come pratica professionale legata solo alla sfera del sensibile, pur separata dalla sfera dell’intellegibile teneva comunque insieme sia la sfera del suono musicale in senso stretto (canto associato alla poesia e alle sonorità, suono degli strumenti musicali, e così via) sia la danza e l’azione teatrale, dunque il controllo del corpo e dei suoi movimenti. 

In termini moderni, la filosofia della musica fu nelle successive età greche, per molti secoli, un taglio prospettico sulla realtà e sull’uomo, unitariamente, più che una disciplina filosofica indipendente dalle altre. “I pitagorici non consideravano l’estetica una scienza indipendente; per loro l’armonia era una proprietà del cosmo e rientrava nel quadro della cosmologia. Non usavano il termine “bellezza”, ma piuttosto quello di “armonia”, che probabilmente fu creato da loro. Il pitagorico Filolao scrive: «L’armonia è l’unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti». Etimologicamente, armonia significa accordo e unificazione, ed esprimeva la concordanza e l’unità delle singole parti. Era principalmente a causa di questa unità che l’armonia rappresentava per i pitagorici qualcosa di positivo e di bello nell’ampio senso greco della parola. Secondo Filolao «gli elementi che sono dissimili e di specie diversa e diversamente ordinati, devono essere conchiusi dall’armonia che li può tenere stretti in un cosmo».

Essi consideravano l’armonia dei suoni semplicemente quale manifestazione di una più profonda armonia, l’espressione di un ordine insito nella struttura stessa delle cose. Una caratteristica essenziale della teoria pitagorica consisteva nel fatto che in essa l’armonia e l’esatta proporzione (symmetria) venivano considerate non soltanto valide, belle e utili, ma anche determinate oggettivamente, una proprietà oggettiva delle cose. Un altro principio di fondo era, inoltre, quello per cui la proprietà che determina l’armonia delle cose è la loro regolarità e il loro ordine. In terzo luogo, l’armonia non è una proprietà di un oggetto particolare ma la giusta disposizione di parecchi oggetti”. (W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, p. 108).