La filosofia della musica nell’età tardo antica

La filosofia della musica nell’età tardo antica

1. Plotino e le realtà ribollenti di vita

Plotino non ha dedicato specifica attenzione alla musica. Tuttavia nelle sue Enneadi compaiono spesso incidentalmente richiami al canto, all’armonia, alla dissonanza, ai ritmi, e così via. Ad esempio in questo passo il canto dell’anima individuale è richiamato, a mezza via tra metafora e discorso proprio, come carattere che la pone in armonia con il Tutto: 

 

Le anime si trovano in posti diversi le une rispetto alle altre. Ognuna, a seconda di dove si trova, fa intonare un canto in armonia sia con il posto in cui è, sia con il Tutto; il loro canto, se dissonante, sarà bello, se considerato dal punto di vista del Tutto; ciò che sembra contro natura sarà, per il Tutto, conforme alla natura; nondimeno, si tratta di una sonorità inferiore. 

Ma l’anima, cantando in questo modo, non altera la bellezza del Tutto come, per fare un altro esempio, un malvagio carnefice non corrompe una città retta da buone leggi. Nella città c’è bisogno di uno come lui, è un bene che egli vi sia e lì egli si trova al posto che gli spetta. (Enneadi III)

 

Il tema musicale è un esempio in realtà: quello di cui parla Plotino è il rapporto tra l’armonia dell’anima con se stessa e l’armonia con la struttura ordinata della realtà, la cui emanazione esprime sempre e senza eccezioni l’ordine creativo dell’Uno: il male non esiste, ciò che esiste è sempre bene, ma l’esistenza degrada sino ai minimi residui della vita. Il canto è quindi espressione della Bellezza come carattere intrinseco dell’essere derivato dall’Uno. 

A volte Plotino sottolinea il carattere multiforme della vita. Ne descrive la molteplicità della radice della singolarità nell’Uno: per conseguenza non c’è vita senza un ribollire, in essa, del Tutto. Ecco ad esempio un testo in cui l’esperienza sensibile è pienamente valorizzata: 

 

Ogni cosa sovrabbonda e, in qualche maniera, ribolle. Vi è come un flusso di queste realtà ribollenti di vita, un flusso che sgorga da una fonte unica, eppure non come se esse derivassero da un soffio o da un calore unici, ma piuttosto come se esistesse una determinata qualità unica che possedesse e custodisse in sé tutte le qualità: quella della dolcezza mescolata con quella del profumo, e il sapore del vino insieme alle proprietà di tutti i succhi e alle visioni dei colori e a tutto ciò che le sensazioni tattili insegnano a conoscere; vi si troverebbero anche tutte le sensazioni uditive, tutte le melodie, tutti i ritmi.

(Enneadi VI, 7)

 

2. Agostino e la riflessione sulle due vie interiori come effetto della musica

Naturalmente la riflessione sulla musica in ambiente cristiano non inizia con Agostino. La tradizione alla fine del IV secolo, quando avviene la sua conversione, è già consolidata sia come pratica liturgica che come riflessione sul rapporto dell’anima verso Dio. Ma tutto questo appartiene più alla storia della musica che alla storia della filosofia perché la filosofia cristiana non era ancora stata una scelta chiara. Gran parte della tradizione patristica, soprattutto orientale, aveva diffidato della filosofia e proponeva una via verso la verità che partiva della rivelazione e dalla tradizione cristiana. 

Per la Patristica delle origini questa diffidenza è comprensibile, perché la filosofia del passato aveva due caratteri: 

– era greca e non ebraica, riposava sul fondamento dell’esperienza e della religione e non conosceva alcuna forma di rivelazione come base del sapere; ed era attiva, vivente, non un residuo del passato;

– rispetto all’età cristiana ormai consolidata e accettata anche dal sistema politico (il IV secolo, tra l’età di Costantino e quella di Teodosio), la tradizione filosofica era davvero antica essendo nata otto/nove secoli prima; era, e così ancora nel presente, sempre stata indipendente dalla religione politeista (solo l’Ebraismo nell’intero territorio dell’Impero era monoteista). 

La cultura cristiana deve utilizzare della tradizione filosofica quanto le serve? O deve sottolineare la radicale svolta? Chi scelse a favore della ripresa della tradizione filosofica all’interno della tradizione cristiana fu Agostino. Il contesto non era quello medioevale: la sua età era tardo-antica, valeva ancora la “romanità” e rispetto a questa tradizione Agostino accettava tutto ciò che poteva essere interpretato in accordo col Cristianesimo. La logica di Agostino era in accordo con la logica di un imperatore come Teodosio, almeno prima del 410, quando il sacco di Roma chiarì che l’Occidente doveva ripensare il proprio futuro. Ma non era affatto ancora crollato. 

Se osservato dal punto di vista moderno, già in epoca rinascimentale, Agostino può essere interpretato come l’anello di congiunzione tra la cultura romana (e, parzialmente, greca) e la cultura medioevale cristiana. I Medioevali, in particolare gli intellettuali che seguirono la visione neoplatonica riletta attraverso le pagine di Agostino, ancorarono alla sua filosofia la propria visione del mondo, tipicamente medioevale. Ma Agostino, non essendo un medioevale, è stato piuttosto un interprete della cultura romana e insieme cristiana: ancorato al passato e aperto al Dio cristiano, più che al futuro, che non conosce né può prevedere (l’età tardo antica durerà almeno ancora un secolo dopo la sua morte, ed era un’età di passaggio, ma era certo prevedibile il futuro). 

Se applichiamo questo schema alla lettura del suo testo fondamentale su temi musicali, il dialogo De musica terminato nel 389, dobbiamo ricordare che è un testo non solo giovanile, ma scritto nel contesto della Milano imperiale, in epoca teodosiana, decenni prima della svolta dovuta alle invasioni dei Visigoti e poi del Vandali. Sono gli anni in cui l’Impero, con l’editto di Teodosio del 380, è diventato cristiano e tutta la cultura della capitale d’Occidente, la Milano del vescovo Ambrogio, è impegnata nel ripensare le istituzioni culturali ed educative ancora imperiali, ma in senso cristiano. 

La musica è quindi ripensata, in chiave matematica, come una delle arti di quello che diverrà il cosiddetto quadrivio, quattro vie per la formazione di base di quelle che vengono già presentate come arti liberali: aritmetica, astronomia, geometria, musica. Agostino concorda quindi con l’impostazione istituzionale dei percorsi di formazione descritti da Marziano Capella, autore negli stessi anni del suo celebre Le nozze di Filologia con Mercurio, con cui nasce in maniera chiara la distinzione fra trivio e quadrivio. Il progetto è quello di una rifondazione culturale dell’Impero in senso cristiano, in accordo col progetto teodosiano. 

L’attenzione verso la musica ha quindi due caratteri: 

– la interpreta, secondo tradizione, come una disciplina matematica, ma collegata con l’esperienza sensibile (gli schemi teorici e l’udito); 

– la interpreta come una delle discipline fondamentali per la formazione pedagogica. 

Nulla di tutto questo è una novità: tutta la tradizione della filosofia della musica dai Pitagorici a Platone, poi modificata dalla maggiore attenzione al rapporto tra intelletto e udito (già con Aristotele, poi con l’aristotelico Aristosseno), oscilla tra la matematica e i suoni, tra il piacere sensibile e la formazione attraverso l’udito. Nulla di nuovo in Agostino rispetto a questa impostazione.

Ma Agostino sottolinea la scissione dell’effetto della musica sull’animo umano. Il De musica, dal punto di vista tecnico si occupa marginalmente di temi filosofici, lasciando sullo sfondo le tradizioni greche; è piuttosto dedicata agli aspetti ritmici e metrici della musica liturgica. Il rapporto col neopitagorismo e col platonismo è marginale sui temi musicali. La sua è una indagine tecnica. Il punto di partenza è questo: “Agostino assegnava alla musica una precisa funzione propedeutica alla preghiera («Preghiamo cantando e pregando cantiamo», «Non con la voce, ma con il cuore si deve cantare»). Il suono che noi udiamo con l’orecchio non ha significato, la vera musica è quella che si canta con il cuore nella preghiera, perché la musica di per sé non ha alcun valore. (…) Ammette più volte la sua commozione fino alle lacrime, la seduzione che le dolci melodie esercitano sui suoi sensi. Questa contraddizione lo turba, gli procura una lacerazione, perché nella musica che egli ascolta non c’è soltanto Dio, c’è anche una bellezza tutta terrena e autonoma, che non ha bisogno d’altro per essere accolta. Si rende conto che la musica ha anche un valore che noi oggi chiameremmo estetico, che gli procura un godimento fisico, spontaneo e istintivo, che ha ben poco a che fare con l’ardore della fede. Egli non accetta un simile conflitto e si dibatte nella inconciliabilità. (…) Agostino aveva bene evidenziato l’ambiguità di una tale posizione. Egli stesso infatti teneva nella massima considerazione la preghiera cantata, ma ammetteva di non riuscire a sottrarsi al fascino tutto sensoriale della melodia e questo gli procurava un indicibile disagio, quello che noi oggi chiameremmo un complesso di colpa”. (R. Sansuini e S. Sansuini, Estetica della musica, pp. 37-38)

C’è una precisa ragione filosofica che giustifica questo “senso di colpa”: Agostino porta con sé la cultura greca, e il platonismo in particolare, ma tutta la tradizione greca considera la realtà in termini unitari. L’unica tradizione che oggi definiamo dualista, quella platonica, non ha mai concepito la physis e la sfera dell’eterno spiegabili con principi diversi, come è evidente dal mito platonico del Demiurgo nel Timeo e dal mito della biga alata del Fedro: il nostro mondo è regolato dal modello delle forme eterne, la nostra anima è stata nell’Iperuranio in una forma di vita precedente. Ma il Cristianesimo impone la visione dualista della realtà perché interpreta il rapporto tra l’eterno e la realtà sensibile definito da una separazione assoluta: si spiega soltanto attraverso la creazione. 

L’interpretazione della musica in Agostino ne deriva: la musica sensibile e la sua bellezza, il suo fascino come le sue regole, appartengono a questo mondo, non all’eterno. Certo, la preghiera può usare la musica per elevare l’animo verso Dio, ma l’unità è infranta. La musica può essere vista come appartenente solo alla vita terrena. Ma la nostra anima appartiene davvero a questa vita terrena?

All’inizio del De anima Agostino parte dalla definizione della musica analiticamente discussa. Ecco il passo:

 

M. – Ma siamo d’accordo di non preoccuparci affatto della terminologia. Ed ora, se lo credi opportuno, indaghiamo, con la maggiore diligenza possibile, la competenza e il metodo di questa disciplina, qualunque essa sia.

D. – Indaghiamo pure. Desidero assai conoscere tutto quanto la riguarda.

M. – Definisci allora la musica.

D. – Non ne son capace.

M. – Riesci almeno ad accettare la mia definizione?

D. – Ci proverò, se la dài.

M. – La musica è scienza del misurare ritmicamente secondo arte. Sei d’opinione contraria?.

D. – No, forse, se mi fosse evidente che cos’è misura ritmica.

M. – Non hai mai sentito usare il termine misurare ritmicamente, ovvero l’hai sentito usare con significato non attinente al canto e alla danza?

D. – Giusto. Ma io osservo che misurare ritmicamente deriva da misura, poiché la misura si deve usare in tutte le opere d’arte, ed invece molti pezzi di canto e di danza sono assolutamente illiberali. Vorrei quindi comprendere con esattezza che cosa significa misurare ritmicamente, questo termine, col quale da solo, si esprime la definizione di una disciplina tanto importante. Infatti per possederla non basta apprendere quanto sanno i vari cantori e mimi.

M. – Non ti turbi il tema sopra enunciato che anche al di fuori della musica si deve osservare la misura in tutte le produzioni e che essa tuttavia nella musica si dice ritmica. Non dovresti ignorare infatti che il dire si attribuisce propriamente all’oratore.

D. – Non lo ignoro. Ma a che scopo questa affermazione?

M. – Perché anche il tuo schiavo, per quanto illetterato e popolano, quando risponde, sia pure con una parola, a una tua domanda, dice qualche cosa. Lo ammetti?

D. – Sì.

M. – Allora è un oratore anche lui?

D. – No.

M. – Dunque, anche se ha detto qualche cosa, non si è valso del dire oratorio. Eppure dobbiamo ammettere che il dire oratorio si dice dal dire.

D. – D’accordo, ma anche questo concetto, chiedo, a che serve?

M. – A farti comprendere che la misura ritmica è di competenza della sola musica (…) Hai poi detto che nel canto e nella danza vi sono molte produzioni illiberali e che, se dovessimo includerle nella misura ritmica, questa nobilissima disciplina diverrebbe illiberale. È stata una osservazione molto sensata. Esaminiamo dunque dapprima che cosa significa misurare ritmicamente, poi che cosa significa misurare ritmicamente secondo arte perché non è stato aggiunto invano alla definizione. Infine non si deve trascurare il motivo per cui si è usata la nozione di scienza. Infatti, salvo errore, la definizione risulta di questi tre elementi.

(…) Perché dunque è stato aggiunto secondo arte? È impossibile che ci sia misura ritmica, se non c’è movimento secondo arte.

D. – Non lo so e non so neanche come mi sia sfuggito. Era proprio questo l’intento dell’indagine. (…)

M. – La musica è scienza del muovere secondo arte. Ora si può dire mosso secondo arte tutto ciò che è mosso ritmicamente con l’osservanza delle misure di tempi e lunghezze. Infatti genera già piacere estetico e pertanto già si può considerare convenientemente misura ritmica. Può avvenire tuttavia che la misura ritmica generi piacere estetico, quando non dovrebbe. Supponi che un tale canti con bella voce ed esegua la pantomima con armonia, ma finisca nello sguaiato, quando il soggetto richiede austerità. Egli non usa con arte la misura ritmica. Infatti esegue senza arte, cioè fuori convenienza, il movimento che al contrario si dovrebbe eseguire secondo arte per il fatto stesso che è ritmico. Quindi un conto è misurare ritmicamente ed un altro misurare ritmicamente secondo arte. La misura ritmica si può riconoscere in qualsiasi cantante purché non sbagli negli accordi di voci e suoni. La conveniente misura ritmica invece appartiene a questa disciplina liberale, cioè la musica. Potresti ritenere che un movimento, in quanto sconveniente al soggetto, non è secondo arte, sebbene devi ammettere che è ritmica secondo le regole dell’arte. Ma rispettiamo il nostro criterio, valido in ogni trattazione, di non lasciarci assillare da una polemica verbale, se il concetto è sufficientemente chiaro. E non preoccupiamoci se la musica si deve definire scienza del misurare ritmico, ovvero del misurare ritmico secondo arte.

D. – Amo disprezzare vivamente le polemiche verbali; tuttavia codesta tua distinzione non mi dispiace.

M. – Rimane da esaminare il motivo, per cui nella definizione s’implica scienza.

D. – D’accordo. Rammento che il procedimento lo richiede.

M. – Rispondi dunque se, secondo te, a primavera l’usignolo moduli con arte la voce. Il suo canto è difatti ritmico e molto armonioso e, salvo errore, è conveniente alla stagione.

D. – D’accordo.

M. – È dunque capace di disciplina liberale?

D. – No.

M. – Vedi dunque che il termine di scienza è indispensabile alla definizione.

D. – Lo vedo bene.

M. – Rispondimi dunque, se vuoi. Ritieni eguali all’usignolo coloro che, mossi da una certa sensibilità, cantano secondo arte, cioè ritmicamente e armoniosamente, sebbene interrogati sul ritmo e la successione dei suoni acuti e gravi non sanno rispondere?

D. – Li giudico del tutto eguali.

M. – E quelli che, senza avere questa scienza, ascoltano volentieri, si devono paragonare a certi animali? Si può infatti vedere che elefanti, orsi e altre specie di animali si muovono ritmicamente al canto e che gli uccelli stessi traggono diletto dalla propria voce. Non canterebbero infatti con tanta assiduità se, essendo escluso ogni interesse, non avessero soddisfazione.

D. – La penso così, ma è un’offesa contro quasi tutto il genere umano.

M. – Non è come la pensi. Infatti uomini eccellenti, sebbene profani della musica, vogliono talora adattarsi alla massa che non differisce molto dalle bestie e che comprende un numero straordinario d’individui. E lo fanno con molta liberalità e tatto. Ma qui non è il caso di parlarne. Anche dopo le grandi preoccupazioni, allo scopo di ristorare e rinfrancare lo spirito, si può con grande moderazione ricevere un po’ di divertimento dai canti. E prenderlo qualche volta a questa condizione è segno di grande moderazione. Ma lasciarsene prendere anche qualche volta è vergognoso e indegno. 

 

3. Boezio e la sua visione filosofica, molto originale, sulla musica

Severino Boezio è vissuto un secolo dopo Agostino e Marziano Capella. Ha ripresa quanto ha potuto della tradizione romana, perché il suo obiettivo politico e culturale era quello che mantenere in vita la grandezza della cultura latina – nelle condizioni politiche del presente, l’età in cui Roma poteva governare se stessa soltanto all’ombra del potere di Teodorico. Ma la filosofia latina per Boezio è lo specchio della filosofia greca, sicché la sua visione della romanità comprende quell’Oriente greco che è stato sotto il potere politico di Roma per sei secoli, prima sotto la Repubblica, poi l’Impero – e l’Impero “Romano” d’Oriente è nei suoi anni nel pieno del suo vigore, in ripresa dopo la crisi del IV secolo. Il suo programma è innestare nella cultura latina il cuore della filosofia greca, e questo è possibile soltanto se la lingua latina saprà essere all’altezza di quella greca. Da qui un impegno davvero consistente nel suo programma di traduzioni. 

Boezio però non ha solo tradotto opere greche. Ha anche ripensato in un ordine teorico sistematico diverse tematiche filosofiche, sempre mutuando dal greco le sue fonti. Con il suo De institutione musica, opera giovanile scritta all’inizio del VI secolo, ha mutuato da fonti greche (per noi in gran parte perdute) le teorie musicali secolari, soprattutto di matrice pitagorica. Come sappiamo, distingue sul piano teoretico tre forme della musica: 

– la musica mundana (laddove il termine mundus traduce il kosmos greco della tradizione pitagorica), dizione che riprende la tradizione che l’ordine del cosmo sia matematica e fonte della musica dei Cieli per noi non udibile, ma conoscibili teoreticamente; 

– la musica humana è invece udibile, ma non con l’orecchio che è capace di ascoltare i suoni del mondo esterno: la musica è della umana perché non è affatto esterna, è un carattere interno della nostra anima che è, insieme, razionale e sensibile; questa forma di musica si “ascolta” quindi unitariamente con l’intelletto e con la sensibilità; ma nel De institutione musica questa forma di musica è descritta sommariamente e viene promesso un approfondimento che, se è stato scritto, non è tuttavia pervenuto sino a noi;  

– la musica instrumentalis, che riguarda gli strumenti musicali, alle cui regole è dedicata gran parte dell’opera riprendendo le sue fonti greche. 

Ma non si tratta di tre musiche indipendenti l’una dall’altra: la musica è una sola, le sue tre forme ne esprimono l’essenza che la mente comprende unitariamente nei suoi valori matematici e armonici in perfetto accordo tra il suo intelletto e il suo udito (esteriore e interiore). Gli strumenti musicali la esprimono in forma adatta all’orecchio, e la vita del nostro spirito risponde fortemente a questo ascolto perché i suoi valori matematici ed armonici corrispondono a quelli della nostra vita interiore, che a sua volta corrisponde alla forma della musica mundana, comprensibile solo intellettualmente. 

Un ventennio dopo questi studi giovanili, Boezio con la celebre Consolazione della Filosofia (o di Filosofia, trattandosi di una figura personificata) applicò le sue idee sul rapporto tra la musica e l’animo umano, in un contesto indubbiamente di grande risonanza interiore. 

Il tema centrale dell’apertura della Consolazione è la descrizione di sé: è un uomo che, oppresso dagli eventi, in carcere e nella impossibilità di difendersi, ha dimenticato se stesso. Non sa più riconoscere se stesso. Lo viene a trovare la Filosofia, personificata in una figura femminile tra la Terra e il Cielo, e lo consola, innanzitutto ricordandogli chi egli è stato ed è. Lo fa in due modi: 

– agendo sulle sue emozioni attraverso il canto e la musica; 

– agendo sulle sue facoltà superiori attraverso l’argomentazione razionale, attraverso una tradizionale pratica di dialogo.  

Sa che se non avesse successo la musica la filosofia come pratica di riflessione teorica non avrebbe potuto avere successo. Questo dipende dal fatto che la musica humana è l’interfaccia della musica che deriva dal canto e dalle parole, ed è sensibile ad essa: così la musica è terapeutica, ed è parte stessa della filosofia, suo strumento per ricordare all’uomo chi egli è. 

Ecco un esempio: 

 

“Ma è tempo di provvedere un rimedio”, ella disse, “anziché di lamentarsi”; e, fissando intensamente su di  me i suoi occhi, riprese: “Non sei forse tu colui che, nutrito un tempo con il nostro latte, e cresciuto con il nostro cibo, ti eri formato un animo forte e virile? Eppure ti avevamo dotato di tali armi che, se tu per primo non le avessi gettate, ti avrebbero difeso con invitta saldezza. Mi riconosci? Perché taci? Sei diventato muto per vergogna o per stupore? Preferirei che fosse per vergogna ma, come vedo, lo stupore ti ha sopraffatto”. E vedendomi non solo silente ma muto e privo di parola, avvicinò dolcemente una mano al mio petto e: “Non vi è alcun pericolo” disse; “soffri di letargia, malattia comune alle menti ingannate. Per un poco si è dimenticato di se stesso; si sovverrà facilmente, se prima ci avrà riconosciuto; e perché egli ne sia capace, tergiamo un poco i suoi occhi offuscati dalla nube delle cose mortali”. Così disse, e asciugò i miei occhi inondati di pianto con un lembo ripiegato della veste. 

Allora, scossa via la notte, mi lasciarono le tenebre,

e gli occhi riacquistarono il pristino vigore,

come quando il maestrale impetuoso incalza i nembi,

e il polo s’arrresta pei rovesci tempestosi,

il sole si nasconde, le stelle non compaiono nel cielo, 

la notte si diffonde dall’alto della terra; 

ma se Borea, uscendo dalla sua tracia caverna,

la sferzi, e ne disserri il chiuso giorno, 

appare Febo, e all’improvviso folgorando

ferisce coi suoi raggi coloro che lo guardano;

non diversamente, dissoltesi le nebbie della tristezza, rividi il cielo, e ritornai in me per riconoscere il volto di colei che intendeva curarmi. 

(S. Boezio, Consolazione della Filosofia, pp. 39-41)

 

Questa sua ultima opera è un cosiddetto prosimetro, un genere letterario che avrà molto successo nel tardo Medioevo, ma è poco utilizzato nella letteratura greca. Nel mondo latino quest’opera di Boezio è un unicum, ed è strettamente legata alla sua concezione del rapporto tra filosofia e musica: il prosimetro è infatti un’opera che alterna, unitariamente, poesia e prosa. La caratteristica della Consolazione della Filosofia è l’uso delle poesie (e quindi musiche: i versi sono canti) modulando i ritmi e utilizzando le metriche in diretto rapporto ad una finalità di cura dell’animo. La musica è una medicina e la Filosofia un medico.