La filosofia della musica ad Atene nel IV secolo a.C.
Platone e Aristotele
1. Paideia: introduzione alla filosofia della musica nel IV secolo
Come è noto, nella società ellenica la musica ha un’importanza sociale e culturale decisiva, anche per la sua diffusione. Ha un legame molto forte e tradizionale con i riti sia cittadini sia misterici, ed anche con quella forma rituale che unisce nel teatro la cultura cittadina, in particolare con la tragedia. Ha un legame diretto e costante con le feste, private e pubbliche, in varie modalità e tradizioni locali. Ha aspetti tecnici rigorosi e spesso innovativi, per lo più controllati dai pubblici poteri.
L’indagine filosofica sulla musica nel VI e V secolo si è certo occupata delle questioni sociali e religiose, ma l’interesse primario non è stato questo: nel pitagorismo la ricerca si è concentrata sulla struttura numerica della realtà, sia materiale che spirituale (quindi dell’unità dell’uomo, nella sua vita naturale e psichica, non distinte in modo netto, nel rapporto col Kosmos). Nel IV secolo questa impostazione pitagorica ha avuto un’importanza decisiva in Platone, ma il modo in cui nei dialoghi ha presentato la sua interpretazione è soprattutto dipendente dai miti (in particolare nel Timeo). Ma in Platone il legame tra la filosofia della musica e il pitagorismo non è tutto sommato centrale.
In Platone la questione essenziale della filosofia della musica è altra: è il tema della formazione dell’uomo e del cittadino, soprattutto nel modo in cui viene studiato nella Repubblica. Per la paideia la musica ha un rilievo così forte da richiedere una indagine specifica sull’anima umana. Certo, anche questo era tema pitagorico, ma Platone ne fa un tema indipendente, collegandolo a due altri temi generali senza però sovrapporli:
– collega la ricerca sulla musica e i fondamenti della Bellezza (dunque alla filosofia del bello);
– collega la stessa ricerca sulla natura profonda della psiche umana, e quindi sul legame tra la musica e la formazione dell’anima, sia sotto gli aspetti privati e culturali, sia su quelli pubblici e, inevitabilmente, politici.
Questi temi, come vedremo tra poco, sono trattati soprattutto nella Repubblica. Ma forse un racconto (probabilmente un mito di invenzione platonica) che propone il personaggio-Socrate nel Fedro è il miglior testo introduttivo. È il cosiddetto mito delle cicale (Fedro, 258e-259d):
Socrate – Fa molto caldo e sembra che le cicale, sopra le nostre teste, ci guardino mentre cantano e dialogano tra loro. Se ci vedessero sonnecchiare, come fan tutti a quest’ora col caldo, invece di chiacchierare, incantati dal loro canto nella pigrizia del nostro pensiero, certo ci prenderebbero in giro, e giustamente, pensando che siamo degli schiavi venuti a dormire vicino a loro in questo rifugio, come fanno le pecore che passano il pomeriggio vicino a una fonte d’acqua. Se invece ci vedono discutere, e navigare senza lasciarci incantare dalle Sirene, forse ci ammireranno e ci daranno quel dono che gli dèi possono dare agli uomini.
Fedro – Che dono? Non ne ho mai sentito parlare, mi sembra.
Socrate – Ma non è giusto che un uomo amico delle Muse non ne abbia mai sentito parlare. Si racconta che un tempo, prima che nascessero le Muse, le cicale erano uomini. Poi nacquero le Muse e comparve il canto, e si dice che ad alcuni di quegli uomini cantare piaceva così tanto da trascurare cibo e bevande e morivano senza accorgersene. E dagli uomini di quel tempo nacquero le cicale, a cui le Muse diedero il dono di non aver bisogno di cibo sin dalla nascita, così da poter subito cantare senza preoccuparsi del cibo e delle bevande, e così per tutta la vita. Da morte, vanno dalle Muse a dir loro quali uomini di quaggiù le tengono in onore, e quale di esse in particolare. Vanno da Tersicore e le parlano di quelli che le hanno reso onore nei cori, e così rendono questi uomini a lei più cari; vanno da Erato e le parlano di quelli che le hanno reso onore nei canti d’amore; e così fan con tutte, a seconda del tipo di onore che gli uomini rendono loro. A Calliope, che è la più anziana, e ad Urania che viene dopo di lei, parlano di quelli che passano il loro tempo a far filosofia e rendono onore alla musica che è a loro sacra. Più di tutte le Muse, sono loro che, prendendosi cura del cielo e dei discorsi, sia divini che umani, mandano un bellissimo suono di voce. Capisci bene, allora, che anche nelle ore più calde si deve parlare e non dormire.
Fedro – Dunque bisogna proprio che parliamo.
È decisivo, nel tipico linguaggio metaforico di Platone, che l’uomo formi se stesso navigando senza lasciarsi incantare dalle Sirene. Ma attenzione: il termine musica, connesso strettamente col canto delle Muse e quindi inserito nella antichissima tradizione poetica, non è limitato alla sfera del suono e dei rapporti matematici di tipo pitagorico. Musica è la sfera della cultura che, nel suo complesso, lega l’uomo alle Muse. Il bellissimo suono di voce non è solo il canto, ma è anche e soprattutto il dialogo filosofico. Un esempio tra i tanti: nel Simposio la flautista è una ragazza molto brava e tutti godono della sua musica, ma quando hanno inizio i discorsi filosofici su Eros la musica tace e la flautista viene congedata. La filosofia prende la scena.
Il tema platonico della filosofia della musica è quindi una parte del tema della paideia: la musica ha un ruolo importante nella formazione dell’uomo e del cittadino, ma ai primi gradi; è un ruolo da tenere strettamente sotto controllo, come vedremo, ma come nel Simposio la musica va poi congedata, per un viaggio filosofico più elevato.
La filosofia della musica viene trattata in un contesto simile, qualche decennio dopo, da Aristotele nell’VIII capitolo della Politica. Il tema è, come in Platone, la paideia, lasciata nettamente da parte l’impostazione pitagorica, pur studiata attentamente.
Se è facile sostenere che Platone, per un aspetto, è pitagorico, è altrettanto facile sostenere che Aristotele non lo è. Sul tema della filosofia della musica, il suo interesse è eminentemente politico, sulla base del principio che nella polis c’è una grande convenienza che le norme sull’educazione siano analiticamente definite dalle leggi. La sua tesi è che la musica, per tradizione, è una delle quattro discipline di base che sono utili a fini educativi, e le altre sono la grammatica, la ginnastica e il disegno. Ecco la sua tesi:
Nessuno può contestare che per il legislatore la preoccupazione principale deve essere l’educazione dei giovani. E infatti nelle città l’assenza di questa preoccupazione crea problemi dal punto di vista politico.
L’educazione deve adattarsi a qualsiasi costituzione, perché il carattere particolare di ciascuna assicura ordinariamente la salvaguardia del regime e, all’inizio, la sua fondazione: così il carattere democratico mantiene la democrazia, il carattere oligarchico l’oligarchia; e sempre il carattere migliore è causa del miglior regime. (…) E poiché lo Stato nella sua totalità ha un unico fine, è evidente di necessità che anche l’educazione è unica e uguale per tutti: la sua cura deve essere pubblica e non privata, come adesso fa ognuno prendendosi cura in privato dei propri figli e impartendo loro l’insegnamento che gli piace. Delle cose comuni l’esercizio deve essere comune. E poiché nessuno dei cittadini può ritenere di appartenere a se stesso, perché tutti apparteniamo allo Stato, tutti siamo parte dello Stato e la cura di ciascuna parte deve per natura tenere conto della cura del tutto. (Aristotele, Politica, VIII, 1)
Aristotele non enuncia una particolare visione filosofica sulla musica costruita sulla base di principi teorici, ma tratta della musica sulla base di quelle che considera le migliori tradizioni di fatto praticate nelle varie città greche. Vedremo più avanti il richiamo ai principi generali della sua Poetica, dove però il tema della musica è di fatto trattato marginalmente. Il tema è quindi essenzialmente pedagogico collegato alla logica delle costituzioni greche.
Oltre a questa visione pedagogica e politica (unificata dalla nozione espressa dal termine paideia) non sappiamo se Aristotele ha svolto indagini specifiche sul rapporto tra l’udito e l’intelletto. Tuttavia uno dei suoi allievi, Aristosseno, autore di un libro parzialmente giunto sino a noi dal titolo Elementi di armonia e di moltissime ricerche su temi musicologici, già negli anni in cui Aristotele dirigeva il Liceo stava sviluppando la linea di ricerca della scuola. In seguito la sviluppò a fondo, mettendo da parte l’impostazione della filosofia della musica propria della scuola pitagorica: il suo interesse venne rivolto al legame tra la percezione sensibile – e dunque innanzitutto l’udito – e la conoscenza intellettiva. L’unità della psiche umana era quindi nettamente la concezione di fondo, di derivazione aristotelica, e non aveva quindi senso lo studio della musica come pura ricostruzione intellettiva dei rapporti matematici indipendenti dall’udito, come volevano i Pitagorici. Ecco dunque una netta differenza tra le scienze matematiche e la musica:
Chi studia la geometria non si serve della percezione: non cerca di distinguere con la sua vista la linea retta dalla circonferenza o da qualsiasi altra figura, cosa che è invece necessaria al carentiere, o al tornitore o a chi lavora in settori simili. Per lo studioso della scienza della musica la rigorosa capacità della percezione sensibile è un requisito fondamentale. Se gli fa difetto la percezione, gli sarà impossibile anche trattare in un seocndo tempo quei problemi che stanno fuori dalla sfera percettiva.
Aristosseno ha operato sul finire del IV secolo. Sia pur seguendo la via aperta da Aristotele, l’interesse per la pedagogia è uno dei molti suoi interessi sulla filosofia della musica. Tipica di Aristosseno, ci cui però la maggior parte delle sue opere sono per noi solo dei titoli, è quindi l’estensione del campo problematico della filosofia della musica a tutti i settori in cui la ricerca intellettuale possa essere connessa alla percezione sensibile: l’udito e il suono non separati dalla mente aperta alla teoria.
Come vedremo, la strada è quella indicata già da Aristotele, pur poi non percorsa analiticamente.
2. Platone: la musica va associata all’arte o alla filosofia?
Siamo portati a considerare la musica come una dimensione estetica, e quindi finiamo con l’associar la filosofia della mousike, anche nella tradizione greca, con la filosofia del bello e dell’arte. Una delle ragioni per cui, d’istinto, collochiamo la musica nella stessa dimensione estetica con l’arte e il bello dipende, tra l’altro, anche dal fatto che l’esperienza sensibile è di fato associata: la musica e la parola nella poesia greca; la musica, la poesia e la danza nel teatro greco; e così via.
Tuttavia nella tradizione pitagorica, che Platone riprende nelle sue indgini dialettiche e nei suoi miti filosofici, la mousike ha almeno una dimensione che non è solo del tutto indipendente dalla parola, dalla danza, e così via, ma anche dall’uomo. Nella physis la dimensione musicale non c’entra nulla con l’uomo e neppure con l’arte: per i Pitagorici, e per miti platonici come quello cosmogonico del Timeo, la mousike dipende da relazioni matematiche e articolazioni armoniche che ci consentono di comprendere la struttura interna della realtà. Per conseguenza:
– Platone ha chiaramente identificato l’arte come mimesi: un’attività umana che per sua natura è basata sull’imitazione (come è evidente ad esempio nella pittura o nella scultura);
– nelle stesse opere platoniche la mousike è descritta sulla base di una dimensione dello stesso tipo: il musicista creando la sua opera e suonandola imita come il pittore e lo scultore, anche se la sua mimesi riguarda non cose esteriori (corpi), ma dimensioni interiori dell’anima e della vita psichica (la psyche e la sua vita); e la connessione tra la mousike, nell’intera gamma della sua complessità definita dalle Muse, e la psyche ha un duplice direzione: il musicista imita la vita della psyche e parallelamente la influenza (e le ragioni per cui i suoni hanno questo potere sull’anima vanno analizzate);
– ma nelle stesse opere platoniche è descritta una diversa dimensione della mousike che, non avendo nulla a che fare con la mimesi, fa della musica qualcosa di totalmente diverso dall’arte (anche se solo per una sua dimensione).
Questo spiega perché Platone ha potuto associare la musica alla filosofia piuttosto che all’arte, ad esempio nel racconto del mito delle cicale che abbiamo prima riportato: la via di ricerca del filosofo, almeno per una dimensione, è la stessa via di ricerca del musicista non inteso come il professionista dei suoni e degli strumenti musicali, ma come il dialettico indifferente alla sfera dei suoni, ma attentissimo alla dimensione dell’armonia, che è frutto di relazioni matematiche, di proporzioni di perfetto equilibrio.
2.1. Il Timeo: la musica e la filosofia
Nel mito cosmogonico del Timeo Platone applica principi pitagorici alla scelta del Demiurgo, che in effetti agisce imitando le idee plasmando la informe materia sul loro modello. La mimesi, sia pure nella dimensione del mito, è quindi connessa con la musica intesa pitagoricamente come dimensione interna e matematica della physis, senza nessun rapporto con i suoni. Ma il Demiurgo non agisce come un artista, non imita dall’esterno, ma adatta le forme eterne e la materia nel tempo. Il rapporto tra quella forma dell’armonia del Kosmos e i suoni non c’è (o, come sostenevano i pitagorici, non è udibile).
La figura dell’Artefice – il Demiurgo – e la connessa teoria dell’Anima del Mondo hanno avuto una straordinaria fortuna nei secoli. Tuttavia, quello che Platone narra nel Timeo è un mito, non una teoria filosofica o una descrizione storico-scientifica, e questo ha favorito il successo di queste pagine, soprattutto tra l’età tardo-antica, il Medioevo e il primo Rinascimento (un’epoca compresa entro dodici secoli) e consentito svariate interpretazioni.
Se questo mondo è bello e l’Artefice è buono, è evidente che Egli ha guardato all’esemplare eterno (…); è evidente a tutti che Egli guardò all’esemplare eterno: infatti l’universo è la più bella delle cose che sono state generate, e l’Artefice è la migliore delle cause.
Se, pertanto, l’Universo è stato generato così, fu realizzato dall’Artefice guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l’intelligenza e che è sempre allo stesso modo. Stando cosi le cose, è assolutamente necessario che questo cosmo sia immagine di qualche cosa. [ … )
Diciamo, allora, per quale causa ha composto la generazione e questo universo Colui che li ha composti. Egli era buono e in un buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Essendo dunque lungi dall’invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a lui.
E chi ammettesse questo principio della generazione del mondo come principale, accettandolo da uomini saggi, l’ammetterebbe assai rettamente. Infatti, Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e che non stava in quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo di fare se non ciò che è bellissimo.
Ragionando, pertanto, trovò che delle cose che sono per natura visibili nessuna che nel suo complesso manchi di intelligenza avrebbe mai potuto essere più bella di un’altra che nel suo complesso abbia intelligenza; e che, d’altra parte, è impossibile che una intelligenza si trovi in alcuna cosa senza un’anima. Seguendo questo ragionamento, mettendo insieme l’intelligenza nell’anima, e l’anima nel corpo, compose l’universo, affinché l’opera che Egli realizzava fosse per sua natura la più bella possibile e la più buona. (…)
E diede ad esso una forma che gli era conveniente ed affine. Infatti, al vivente che deve comprendere in sé tutti i viventi è conveniente quella forma che comprende in sé tutte quante le forme. Perciò lo tornì arrotondato, in forma di sfera che si stende dal centro agli estremi in modo eguale da ogni parte, ossia la più perfetta di tutte le forme e la più simile a se stessa, ritenendo il simile più bello del dissimile. E lo fece perfettamente liscio di fuori tutto intorno, per molte ragioni. (…) Gli assegnò un movimento conveniente al suo corpo: dei sette movimenti gli assegnò quello che soprattutto conviene all’intelligenza e alla saggezza. Perciò, appunto, facendolo ruotare allo stesso modo e, nello stesso luogo e in sé medesimo, fece sì che si muovesse con movimento circolare, gli tolse tutti gli altri sei movimenti, e lo fece immobile rispetto ad essi. (…) Tutto questo ragionamento il dio che sempre è fece attorno al dio che ad un certo momento doveva essere, e produsse un corpo liscio ed omogeneo, da tutte le parti equidistante dal centro, perfetto ed intero, e costituito di corpi perfetti.
E posta l’anima nel mezzo di esso, la distese per ogni parte, e con questa stessa avvolse anche al di fuori tutto intorno il corpo di esso, e in questo modo costituì un cielo circolare che gira in cerchio, unico e solitario, ma per virtù sua capace di stare con se stesso, ed esso stesso conoscitore e amante di sé medesimo in modo adeguato. Per tutte queste ragioni egli generò questo dio felice.
(Platone, Timeo, 27d ss.)
Nella filosofia platonica della musica questo testo è fondamentale, benché la struttura dell’universo non appartenga all’universo dei suoni. Il punto è che la musica non è, per Platone, solo afferente alla sfera dei suoni, del canto e della danza. La forza e l’importanza di questa dimensione allo stesso tempo fisica e spirituale – perché i suoni e i movimenti “risuonano” nell’anima e quindi ne formano il carattere – dipende dalla teoria delle idee connessa, attraverso il mito del Demiurgo, con la sfera fisica e spirituale dell’esperienza. Il punto di vista platonico è chiaro:
– la verità e il bene hanno un fondamento assoluto, fuori dal tempo, nelle idee (forme eterne); la nostra verità e il nostro bene non sono assoluti, ma si orientano verso l’eterno; la musica sensibile è quindi una fondamentale direzione dell’orientamento della vita psichica verso l’eterno, nel tempo; la sensibilità (i suoni) e il soprasensibile (l’ordine matematico imposto dal Demiurgo sulla physis) devono quindi allinearsi il primo verso il secondo;
– il cuore dell’identità dell’uomo è la sua anima, che ha alcuni aspetti per natura orientati verso l’alto (l’eterno e il Bene), ma anche altri aspetti orientati, sempre per natura, verso le forze sensibili (le passioni che dominano l’uomo, nel mito della biga alata è l’orientamento del “cavallo nero”); per conseguenza la musica ha anche un aspetto che porta verso il basso, che educa l’anima a seguire il cavallo nero.
È accettabile?
“Ciò che definisce l’Idea è la sua validità generale. Vi è tuttavia in questo una determinazione esteriore. Perché essa possa assicurare completamente la propria funzione, deve esistere nella propria interezza al di là del mondo comingente, al di là del divenire. Le qualità da lei possedute dovranno essere antitetiche rispetto a quelle che caratterizzano questo mondo.
Quest’ultimo è instabile, costantemente sottomesso ad un processo degenerativo: l’Idea è immutabile. Quello è ingarbugliato e confuso, e mescola, senza un ordine preciso, prerogative per nulla essenziali; essa è pura. Quello è estremamente complesso, come una successione d’ombre dai contorni mal definiti: essa è semplice. Quello è dipendente verso se stesso, è l’intelligibilità; essa è indipendente, non esiste né in rapporto a … né in altra cosa che non sia se stessa, essa è in sé. Riassumendo: l’idea è separata o trascendente, implicando quest’ultimo termine non soltanto il concetto d’una separazione, ma anche di una superiorità. (…)
È senza dubbio utile ricordare ora la celebre allegoria della caverna (…). Le ombre proiettate sul fondo della caverna rappresentano il mondo naturale, quello che noi percepiamo. I prigionieri che sono incatenati e immobilizzati su un posto e sono impediti da una gogna di volgere la testa «assomigliano a noi». Il fascino che esercita su questi disgraziati il divertente gioco delle silhouettes, non perfette nei loro contorni, rivela il nostro stato, la condizione di coloro che sono paralizzati dai loro interessi sensoriali e dalla loro affettività (…). Che il demone personale (…) spinga coscientemente uno di questi a girare la testa, a non lasciarsi affascinare dall’apparenza e dalle sue seduzioni, e questi farà di tutto per liberarsi, per sciogliersi dai suoi legami, perché, voltandosi, sarà stato preso dal sospetto che esiste un essere, un essere oltre colui al quale, in modo aleatorio e contraddittorio, conferisce al momento la propria fiducia.
Egli alzerà lo sguardo fra mille difficoltà, verso la rivelazione essenziale. Risvegliato bruscamente dopo questo sogno pieno di incubi, alzerà lo sguardo per comprendere che lo spettacolo al quale la sua condizione lo ha costretto ad assistere è soltanto un falso aspetto, una copia. Ben presto saprà che si è trattato soltanto di uno spettacolo d’ombre. Crederà allora che gli avvenimenti che sono stati trasmessi arbitrariamente da irresponsabili registi costituiscano la realtà stessa. Questo enorme fuoco, grazie al quale la sequela confusa di eventi si proietta sul fondo della caverna, sarà da lui immaginato come luce e verità. Egli diverrà come quei saggi soddisfatti di porre assiomi e di affermare che il solo svolgimento possibile delle loro ipotesi astratte è, appunto, una legittimazione.
Poco propenso all’intelligibile, egli non potrà accettare per lungo tempo una simile soluzione. Vorrà andare avanti. Se ha questo coraggio, arriverà ben presto al vero mondo: quello in cui si irradia il sole del Bene. Vedrà le matrici sulle quali sono stati modellati gli avvenimenti i cui riflessi offuscati apparivano ai prigionieri. Comprenderà che è stato doppiamente preso in giro: in modo grave da coloro che – nella loro cecità – hanno considerata sacra l’orditura contingente e fuggevole delle ombre; in modo meno grave da coloro che – nella loro grettezza – hanno considerato realtà alcuni oggetti senza importanza e precostruiti. Egli verrà assorbito dalla contemplazione di ciò che esiste di più alto e non desidererà altro che questa condizione di estasi.
Tuttavia non potrà dimenticare coloro che ha abbandonato incatenati, nella caverna, che continuano a sottomettere rigidamente la loro vita a quella frastornante sfilata d’ombra. Scenderà di nuovo nella caverna. Nella penombra e con gli occhi ancora pieni delle bellezze splendenti che ha veduto, si comporterà in maniera maldestra e commetterà degli spropositi. I prigionieri si prenderanno burla di lui: se egli insisterà e cercherà, con tutte le forze – come Socrate – di liberarli, quelli non esiteranno – per salvaguardare la loro ignorante tranquillità – a condannarlo a morte. Se ne libereranno… (…)
Il Timeo, che cerca proprio di chiarire la relazione fra il contingente e l’intelligibile, procede in maniera diversa: adotta – armonizzando dimostrazioni fermamente rigorose – un’altra tecnica: quella dell’immagine artigianale. Senza dubbio si tratta soltanto di «rapporti verosimiglianti». Essi hanno quanto meno lo stesso valore delle ipotesi avanzate da altri fisici e da altri pensatori e hanno, in contrapposizione a questi, il merito di tener presente la natura della conoscenza.
Seguiamo dunque Timeo. Il Mondo, quello che è fornito dalla percezione, nasce, si trasforma e muore; vive nel disagio ma esiste; è assolutamente necessario che vi sia una causa in ciò. Comprendiamo a quale causalità esigente esso risponde…
La sua esistenza suppone – per chi vuole cioè riflettere in quest’ambito, per chi vuole immaginare con ponderazione – tre elementi: per cominciare un modello dal quale è stato costruito, un materiale nel quale questa costruzione è stata fatta, un costruttore che ha realizzato quest’opera. Il modello non può essere altro che eterno e imperituro altrimenti non potrebbe svolgere il proprio ruolo paradigmatico.
L’analisi delle modalità della conoscenza d’altronde prova inconfutabilmente che si tratta del mondo stesso delle Idee del quale il Menone, il Fedone e la Repubblica hanno fissalo la necessità (…). Contemplando questo intelligibile che «è» sempre in maniera identica il costruttore ha forgiato questo universo.
Chi è l’autore e il creatore dell’universo? Chi è il costruttore? Senza dubbio, ci dice Platone, «scoprirlo è un impegno gravoso e, una volta scoperto, rivelarlo a tutti è impossibile». Possiamo però comprendere la sua opera: il Costruttore divino, utilizzando la sua incalcolabile potenza, ha creato il contingente cercando di riprodurvi – per quanto possibile – l’essenza e le proprietà delle reallà ideali. Era questo un compito impostogli dalla sua origine divina, e se noi dobbiamo riconoscere che c’è in questo mondo qualcosa di bello o – almeno – qualcosa che ci richiama alla bellezza, lo è, da una parte, perché ha adempiuto alla sua missione come era giusto e, dall’altra, perché ha preso le Idee come modello (…).
Tuttavia il suo lavoro nel modellare ha incontrato resistenza. Guidato dall’intelletto, il Costruttore voleva imporre al mondo un ordine, una finalità intelligente: si è imbattuto però nella necessarietà propria del materiale con cui ha realizzato la sua opera. Il senso di questo mondo, lo sappiamo, è nell’essere sottomessi all’oscillare perpetuo del divenire: a tal punto che veniamo presi da dubbi e incertezze quando diciamo che «questo», per esempio, appartiene nella sua sostanza all’acqua o alla pietra, poiché «questo», in determinate condizioni, può divenire liquido o solido. (…) «Simile ad una cera malleabile, la sua natura si presta ad ogni sollecitazione; è smossa e sconvolta in figure per quel che vi contiene; appare, per questa ragione, sia sotto un certo aspetto, che sotto un a1tro; si tratta, invece, riguardo a quel che percepisce e divulga, di imitazioni degli oggetti eterni, aloni che si formano in modo difficile da spiegarsi ma meraviglioso… » (Repubblica, VII, 50c). Così il ricettacolo è anche il luogo: e questa materia amorfa nello stesso tempo riceve, simile ai recipienti usati dai farmacisti e dai profumieri, le qualità che si vogliono dar loro …”. (F. Chatelet, Platone, trad. it. di G. Cafiero, Cappelli, Bologna 1982, pp. 104-108)
2.1. La Repubblica: la musica, l’arte e l’educazione nel contesto della dimensione politica
Forse è bene precisare che non c’è qualcosa di corrotto nell’orientamento verso le passioni che allontanano l’anima umana dal Bene e dall’eterno. Si tratta di un fatto di natura, un carattere della physis che il Demiurgo ha orientato verso il Bene, plasmandola sul modello matematico delle forme eterne (le idee platoniche): meglio di così non sarebbe stato possibile, i limiti della materia sono un fatto, non superabili neppure per il Demiurgo.
La physis (comprese le ferree passioni che puntano a dominare l’uomo) è la migliore realtà possibile.
Nella Repubblica, per molti libri tra il II e il VI, Platone descrive un lungo percorso di ricerca dialettico che punta a rispondere a queste domande:
– che cos’è veramente la giustizia? conosciamo una risposta a questa domanda che spieghi, sulla base delle forme eterne (le idee), la realtà storica e politica necessariamente nel tempo?
– come dobbiamo organizzare la polis (la sua politeia, la sua costituzione, cioè le leggi poste a fondamento della sua identità) perché aiuti il cittadino a dirigere la propria anima verso l’eterno e il bene, vivendo nel tempo?
Per la verità a Platone interessa soprattutto la formazione dei dirigenti della polis, che dovranno per forza di cosa essere i filosofi, cioè i cittadini che siano orientati, nella loro mente, verso l’eterno. In fondo, nel loro piccolo dovranno agire sulla polis come il Demiurgo ha agito sulla materia: dovranno plasmare la città rispettando la vera natura del Bene. Ora, deve essere chiara una cosa: plasmare la città sul modello della verità eterna delle idee significa imporre determinate leggi, con la massima inflessibilità. Non siamo nel contesto di una democrazia governata da una assemblea dei cittadini.
Tra le molte vie di ricerca che nella Repubblica vengono dialetticamente percorse, una riguarda la musica. L’oggetto di ricerca sono le leggi della polis che riguardano il settore della musica, ed è un settore definito, come vedremo nel passo qui in lettura, decisivo. Perché è tanto importante? Non è forse vero che la musica è legata alla piacevolezza della vita? Certo, ma non è questo il punto: piacevole o meno che sia, la musica educa, ha un impatto (nel tempo, soprattutto per i lunghi anni della formazione dei bambini e degli adolescenti) così forte da essere una delle forze che plasmano l’anima.
Platone precisa (attraverso il personaggio-Socrate che conduce l’indagine) che l’oggetto del discorso è quindi necessariamente pedagogico e, insieme, politico perché la domanda riguarda quali devono essere le leggi della polis. E, in questo primo brano in lettura, l’indagine riguarda non i suoni musicali dei racconti e dei miti, ma solo i suoni delle parole. Ecco il brano:
– Quale sarà dunque l’educazione? (…) Quella per educare il corpo è la ginnastica, quella per l’anima la musica.
– Certo.
– Dovremo quindi cominciare l’educazione dalla musica prima che dalla ginnastica?
– È così.
– E i racconti (logoi) dobbiamo considerarli parte della musica?
– Sì, dobbiamo.
– E i racconti non sono forse di due generi, quelli veri e quelli falsi?
– Ovvio.
– E dimmi, dobbiamo educare utilizzando entrambi questi generi cominciando da quelli falsi?
– Non capisco cosa stai dicendo.
– Ma non capisci che quando educhiamo i bambini piccoli raccontiamo loro per prima cosa i miti? Anche se qualche verità c’è, nei miti si raccontano fantasie, non verità. Quindi ai bambini insegniamo dei miti prima che della ginnastica.
– Sì, è vero.
– Ed è questo che intendevo dire: dobbiamo cominciare con la musica prima che con la ginnastica.
– Bene.
– Ora, tu sai bene, o no?, che è della massima importanza l’inizio di ogni attività, soprattutto quando si è giovani e ancora piccoli? In quegli anni infatti i più piccoli sono plasmabili, ed è quindi più facile plasmarli come vogliamo.
– Esatto.
– E allora accetteremo che i bambini ascoltino i primi miti che capita, inventati dai primi venuti, e la loro anima accolga come vere le opinioni opposte a quelle che riterremo debbano avere una volta cresciuti e diventati uomini?
– Ma no, non dobbiamo certo permetterlo!
– Dovremo allora controllare i compositori di miti, scegliendo chi racconta la verità e scartando chi canta il falso. Convinceremo poi le madri e le nutrici a cantare ai bambini i miti che abbiamo approvato, e a preoccuparsi di formare coi miti le loro anime assai più che formare i loro corpi dirigendoli con le mani. Ma di quelli che ora si cantano la maggior parte vanno rigettati.
– E quali? (…)
– Sono quei discorsi che raffigurano malamente la natura degli dèi e degli eroi, come fanno i pittori quando dipingono immagini che non somigliano affatto agli oggetti che vogliono ritrarre.
– Certo, è giusto criticare questi discorsi. Ma a cosa ti riferisci in particolare, a quali miti?
– Innanzitutto mi riferisco al poeta che ha mentito gravemente, con una menzogna seria, e su cose della massima importanza, chi disse di Urano quello che Esiodo riferisce, e come Crono lo punì”.
(Platone, Repubblica, II, 376e-377e)
La legge dovrà quindi sottomettere a precise leggi il contenuto dei racconti e dei miti. Come si chiarirà nei libri finali della Repubblica, tutte le arti imitano qualcosa, ma appartenendo alla sfera della sensibilità (e quindi della storia, non dell’eterno) imitano le cose (così la pittura, la scultura, l’architettura, e così via) e i caratteri dell’anima (il teatro, la poesia, la musica, e così via). I poeti non possono lavorare in piena libertà: se lo si consentisse, necessariamente il loro lavoro si allontanerebbe dalla verità, perché imiterebbe la physis (un misto di realtà vera, imposta dal Demiurgo, e di irrealtà, un gioco di apparenze che svaniscono). Ma perché i racconti e i miti possano educare verso l’eterno l’anima dei giovani i loro racconti e miti devono trovare il modo di “narrare”la verità, pur nel tempo e utilizzando le storie e le immagini, anche se la verità è di per sé fuori dal tempo e non ha alcuna storicità.
Vediamo adesso, nel passo che segue, due cose:
– se sia la musica a doversi adattare ai miti e ai racconti o viceversa;
– se siano da accettare tutte le armonie e i ritmi.
– Così abbiamo trattato tutta la parte dell’educazione musicale attraverso i racconti e i miti; abbiamo infatti detto cosa sono e come bisogna narrarli.
– Sembra così anche a me.
– E quindi non ci resta adesso di parlare sulla parte dell’educazione attraverso i modi dei canti e della musica?
– Certo. (…)
– Il canto è composto da tre elementi, le parole, l’armonia e il ritmo.
– Questo è chiaro.
– Certo, per quanto riguarda le parole, il canto non differisce in nulla dal discorso non cantato, lo si deve narrare secondo le stesse regole e nello stesso modo che abbiamo prima enunciato.
– È vero.
– Quanto all’armonia e al ritmo, è necessario che si accompagnino alle parole.
– Certo.
– Abbiamo però detto che di lamenti e di pianti nei discorsi narrativi non ce n’è alcun bisogno.
– Vero.
– Tu che sei musicista, dimmi quali sono le armonie di tipo lamentoso. (…) Non si dovranno togliere via? Non danno alcun vantaggio alle donne per bene, e neanche agli uomini.
– Certo.
– Quanto all’ubriachezza, alla mollezza e alla pigrizia, si tratta proprio di cose assai non adatte ai guardiani.
– È vero.
– Dunque, quali sono le armonie molli e conviviali?
– Le ioniche, e alcune delle lidie, quelle dette “rilassate”.
– E queste, amico, le useresti mai con i guerrieri?
– Certo che no, ma forse possono rimanere sia l’armonia dorica che la frigia.
– Io non conosco le armonie. Sei tu che indichi qual è quella capace di imitare per bene le voci e gli accenti di un uomo di valore nell’azione di guerra e in ogni altra situazione di violenza, anche quando deve affrontare le ferite o la morte, o qualsiasi altra sciagura, fronteggiando il destino con animo forte e con la dovuta disciplina in tutte queste situazioni. E hai indicato anche la melodia che consente di imitare l’azione pacifica di un uomo, non forzata ma volontaria, di uno che persuade qualcun altro o lo prega, che ammaestra o rimprovera, o dà ascolto a un altro che lo prega o lo dirige, o cerca di persuadere; di chi con questi mezzi ottiene il suo intento e non va in superbia, ma si comporta con saggezza e misura, e fa buon viso al risultato che ottiene. Hai dunque indicato le due armonie, una violenta e l’altra volontaria, che imitano al meglio le voci di sventurati e di chi sa impegnarsi, di saggi e di coraggiosi.
– Ma non mi chiedi di indicartene altre, ti sono sufficienti quelle che ho detto.
– E infatti non avremo certo bisogno di molte corde né di strumenti, non tante armonie nei nostri canti e nelle nostre musiche.
– Non mi pare, certo. (…)
– E dei fabbricanti e dei suonatori di flauto, che dici, ne accetteremo la presenza in città? Non è forse questo lo strumento a più corde di tutti, e gli stessi “panarmonici” non sono di fatto una imitazione del flauto?
– Sì, è evidente.
– Tra le utili alla città ti restano la lira e la cetra. E in campagna i pastori potranno avere delle siringhe.
– Il nostro ragionamento sembra portarci a questa conclusione.
– Del resto non diciamo nulla di nuovo perché valutiamo che Apollo e i suoi strumenti siano preferibili a Marsia e ai suoi strumenti.
– Per Zeus, non diciamo nulla di nuovo infatti.
– E guarda che stiamo indicando anche come purificare la città che prima abbiamo detto che era molle e lussuosa.
– E ben saggiamente da parte nostra!
– Bene, continuiamo allora. Oltre alle armonie, dobbiamo parlare anche dei ritmi, perché non bisogna accettare ogni genere e sorta di metri, ma solo quelli adatti ad una vita ordinata e civile. Deciso questo, sarà poi necessario imporre che siano il metro e la musica ad adattarsi alle parole per la vita ordinata della città, e non le parole al metro e alla musica. Quali poi possano essere questi ritmi, è compito tuo indicarli, come per le armonie.
– Ma per Zeus, non saprei proprio dirlo con precisione! Che vi siano in generale tre tipi di cui si formano i metri, così come ve ne sono quattro per i suoni, da cui derivano le armonie, è quanto posso dire perché l’ho visto; ma non sono in grado di precisare di cosa sono imitazione, né di qual genere di vita.
– Su questo però possiamo seguire i consigli di Damone, che ci ha indicato quali sono i metri adatti alla bassezza d’animo, quali alla superbia, quali alla pazzia e al resto, e quali invece sono adatti alle qualità opposte. (…) Ma che il decoroso e il brutto si accompagnino all’euritmia e all’aritmia, sai ben distinguerlo?
– Sì, certo.
– Ora, l’euritmia e l’aritmia seguono, per somiglianza, l’una un buon testo, l’altra il suo contrario, e così è per l’armonia e la disarmonia, se è il ritmo e l’armonia a seguire le parole, come poco fa dicevamo, e non viceversa.
– Lo confermo, sono questi che devono adattarsi alle parole.
– Ora, qual è la caratteristica delle parole e del discorso? Non dovranno seguire il carattere dell’anima?
– Sì, certo. (…)
– Dunque la bontà delle parole e l’armonia, il decoro e l’auritmia, dovranno tutti seguire la bontà dell’anima, non quella che eufemisticamente chiamiamo dabbenaggine, da stoltezza qual è. Dovranno invece seguire la disposizione d’animo di un carattere vigoroso e nobile.
– Sì, è così.
– Non dovranno quindi comportarsi così i giovani, sempre, per compiere al meglio i loro doveri?
– Sì, così dovran fare. (…)
– Noi dovremo quindi controllare solo i poeti, obbligandoli a infondere nelle loro poesie l’immagine del buon carattere o a non comporre poesie nella nostra città. Oppure forse dovremo controllare anche gli altri artisti, e impedir loro di infondere nelle loro opere valori e caratteri moralmente negativi, sfrenati, ignobili, brutti, sia nelle immagini di esseri animati, sia negli edifici e in qualsiasi altra opere e prodotto. Non lasceremo lavorare presso la nostra città chi non ne sia capace, perché i nostri guardiani non siano allevati tra immagini viziose come in un cattivo pascolo, cibandosi di un simile cibo tutti i giorni e più volte al giorno, fino ad assorbire nel proprio animo un unico grande male? (…)
E non è forse per questo, Glaucone, che l’educazione musicale ha un’importanza quanto mai decisiva? Non è infatti vero che il ritmo e l’armonia penetrano nell’interno dell’anima e vi portano l’armonia delle forme, nel migliore dei modi, e inoltre rendono l’anima armonica?
(Platone, Repubblica, III, 398b-403b)
“I pitagorici sono ricordati nella storia dell’estetica anche per un’altra teoria, sempre connessa con la musica, ma di carattere del tutto diversa. La prima teoria asseriva che la musica si basa sulla proporzione, mentre la seconda la considerava una potenza che agisce sull’anima. La prima riguardava l’essenza dell’arte, la seconda i suoi effetti sull’uomo. (…) I pitagorici però osservarono che l’arte della danza e della musica aveva un effetto analogo sullo spettatore e sull’ascoltatore; essi compresero che non agiva soltanto attraverso il movimento, ma anche attraverso l’osservazione del movimento stesso, e che a un uomo colto non era necessario partecipare a danze orgiastiche per provare emozioni intense, ma era sufficiente assistervi. (…) I suoni trovano un’eco nell’anima, la quale risuona in armonia con essi. Così accade con una coppia di lire: quando ne facciamo risuonare una, l’altra che sta di fronte risponderà.
Da tutto ciò segue che la musica può agire sull’anima: la buona musica può migliorarla, e viceversa, quella cattiva potrà corromperla. I Greci usano qui il termine di psychagogia, cioè guida delle anime; così la danza, e in particolare la musica, possedeva a loro giudizio, un potere psicagogico.
Così intesa, la musica può condurre l’anima a un ethos (disposizione d’animo) buono o cattivo. In base a questa teoria, si sviluppò uno studio dell’ethos musicale, cioè dei suoi effetti psicagogici ed educativi, e tali indagini divennero una caratteristica permanente della dottrina musicale dei Greci, ancor più diffusa dell’interpretazione matematica. In conformità con questo insegnamento, i pitagorici, e più tardi coloro che ereditarono le loro idee, attribuirono grande importanza alla distinzione tra buona e cattiva musica. Essi esigevano che la buona musica fosse protetta dalle leggi e che – in una materia moralmente e socialmente tanto importante – la libertà, e i pericoli a essa connessi, non dovessero essere consentiti”. (W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, I, p. 113)
3. Aristotele: la pittura e la scultura sono imitazione, lo è anche la musica?
I temi filosofici sulla musica trattati da Aristotele sono parti di varie indagini su non pochi aspetti della realtà, così come troviamo nella filosofia delle origini. Ora, abbiamo sottolineato che nella tradizione pitagorica fino al V secolo il campo problematico è unitario, benché vi siano temi che riguardano la politica, altri l’astrologia, altri la medicina, e così via; invece negli scritti di Aristotele ci sono sì temi analoghi, ma l’unità del campo problematico manca:
– nel Sul Cielo discute la teoria pitagorica della musica celeste;
– nella Politica discute analiticamente le posizioni di Platone sull’educazione musicale rispetto alla logica della Costituzione;
– nella Politica rimanda alla Poetica sul rapporto tra la musica e la catarsi (tuttavia nella Poetica non si trova una indagine specifica);
– negli scritti dedicati ai Problemi musicali la sua indagine verte sul rapporto tra i suoni e la psiche umana;
ma queste indagini non sono correlate tra loro: non si tratta di un unico campo problematico, o almeno le domande singolarmente poste non sono presentate come espressione di un unico campo.
Dobbiamo concluderne che Aristotele è molto meno legato ai Pitagorici rispetto a Platone (e i suoi allievi lo sono ancota meno, e Aristosseno quasi per nulla). Tuttavia le domande, pur isolate, sono di fatto le stesse della tradizione e, come è usuale, Aristotele discute i testi a lui precedenti.
3.1. Perché non possiamo ascoltare, se esiste, la musica dei Cieli?
Nello studio fisico sui temi cosmologici – nello scritto Sul Cielo – Aristotele prende in esame le teorie dei Pitagorici, sia dal punto di vista dell’armonia del Kosmos sia sul punto della cosiddetta musica delle stelle.
Palesemente Aristotele apprezza molto la nozione cosmologica di armonia, ma non c’è nei suoi tesi un’analisi matematica della teoria pitagorica. Almeno nei testi giunti sino a noi. C’è però un esame della teoria che afferma che i movimenti dei Cieli producono suoni, anche se non li udiamo. Per affascinante che questa teoria possa essere, Aristotele chiarisce che non può essere vera. Ecco alcune delle sue argomentazioni in un brano del Libro II dell’opera Sul Cielo, di cui abbiamo selezionato una parte:
Affermare che il moto dei corpi celesti produce suoni armonici e che questi suoni generano un accordo, è certo una teoria ammirevole e ingegnosa, ma non risponde al vero.
Alcuni ritengono che il moto dei corpi di così grandi dimensioni deve necessariamente produrre dei suoni, come del resto accade anche ai corpi che stanno intorno a noi, pur così inferiori per grandezza e velocità. Il sole e la luna e le stelle, che sono in gran numero e di dimensioni così ampie, è impossibile che, muovendosi così velocemente, non producano un suono di intensità straordinaria. Ritenendo poi che, rispetto dalle distanze tra i vari corpi celesti, si muovano con una velocità regolata da accordi costanti e armonici, affermano da queste premesse che il suono prodotto dal moto circolare degli astri è caratterizzato da armonia. Sembra però loro assurdo che noi non si abbia alcuna percezione di questo suono, e dicono che non lo sentiamo perché ci accompagna dalla nascita, e per questo non abbiamo alcun modo di distinguerlo dal silenzio: infatti solo contrapponendo i suoni e il silenzio è possibile distinguerli. (…)
Ora, questa teoria è esposta in maniera ordinata e coerente con l’arte delle Muse, ma è impossibile che le cose stiano in questo modo. Non soltanto è assurdo che non si abbia alcuna percezione di questo suono, anche se cercano di risolvere questa difficoltà, ma è assurdo anche che, a parte la sensazione, non se ne abbiano neppure altri effetti. Sappiamo che i rumori molto intensi giungono a frantumare determinati corpi inanimati, tanto che il fragore del tuono arriva persino a spaccare le pietre e i corpi più resistenti. Visto che i corpi celesti in movimento costante sono così grandi, dovrebbe giungere fino a noi un rumore molte volte più forte di quello del tuono e con una straordinaria e violenta intensità, perché la forza di penetrazione di un qualsiasi rumore è proporzionale alla grandezza in movimento.
Noi invece non abbiamo alcuna percezione uditiva proveniente dai corpi celesti, né i corpi sulla terra sembrano subire alcuna violenza. E questo accade perché gli astri non producono rumore.
Probabilmente è utile ricordare che il legame tra la musica e l’eterno, sottolineata da Platone sulla base della sua teoria delle idee, resta sullo sfondo delle teorie aristoteliche, ma di fatto non entra in gioco. Le sue analisi sulla musica, di cui adesso leggiamo alcuni passi, restano di fatto sul piano del sensibile, e delle conseguenti scelte politiche.
3.2. Ha ragione Platone sulla musica nella Repubblica?
Nel Libro VIII della Politica Aristotele prende posizione, argomentando, sui passi di Platone della Repubblica che abbiamo prima riportato. Ecco il suo commento:
Dobbiamo inoltre trattare dei modi musicali e dei ritmi; e dobbiamo chiederci se ai fini dell’educazione è opportuno usare tutti i modi e tutti i ritmi o fare una distinzione; in ultimo va chiarito se questa distinzione va fatta seguendo coloro che s’interessano di musica con finalità pedagogiche o se è necessaria una distinzione di tipo diverso. Ora, visto che nella musica va distinto il canto e il ritmo, non deve sfuggire quale forza possiedano questi due elementi sull’educazione, e se sia da preferire una musica caratterizzata da bel canto o da bel ritmo. (…)
Noi accettiamo la distinzione delle melodie che sono proposte da alcuni filosofi che ammettono melodie etiche, d’azione ed entusiastiche, e aggiungono che i modi musicali sono appropriati per natura a ciascuna di esse: un modo è proprio di una certa forma di melodia, un altro a un’altra. Noi diciamo che la musica non deve mirare ad un unico vantaggio, ma di molti vantaggi (…) Questi modi musicali e queste melodie occorre che siano lasciate usare dai professionisti che in teatro partecipano alle gare musicali. Certo però gli spettatori sono di due tipi, alcuni sensibili e colti, altri più grossolani (…), per cui si devono riservare delle competizioni e degli spettacoli anche a questi ultimi, per il loro riposo. E come l’anima di essi viene stravolta dalla condizione naturale, così egualmente accade da modi musicali e da melodie dal suono acuto e fortemente intenso; si deve quindi consentire che i professionisti usino i generi di musica per questo tipo di spettatori, perché ciascuno si diletta di quel che è conforme alla sua natura.
E ai fini dell’educazione, come abbiamo detto, occorre usare melodie etice e modi musicali della stessa natura. Uno è quello dorico, come dicevamo prima, ma occorre accettare qualsiasi altro sia approvato da quelli che si interessano di studi filosofici e dell’educazione musicale. Ma Socrate nella Repubblica non fa bene a lasciare insieme al modo dorico solamente quello frigio, tanto più che tra gli strumenti rifiuta l’aulo. In realtà tra i modi musicali quello frigio ha lo stesso effetto dell’aulo tra gli strumenti: entrambi suscitano entusiasmo e passione – lo si vede bene dalla poesia.
Il delirio dionisiaco e l’agitazione analoga tra gli strumenti trova espressione tra gli auli, e tra i modi musicali è connesso con i canti frigi: e infatti per comune ammissione il ditirambo sembra che sia frigio. (…) Riguardo al modo dorico, tutti sono d’accordo che è molto grave e che più di tutti ha carattere virile. E inoltre elogiamo il medio tra gli estremi, e diciamo che si deve seguirlo; e il modo dorico ha questa natura rispetto agli altri; dunque è evidente che conviene educare i giovani soprattutto con i canti dorici. (Aristotele, Politica, VIII, 1241 b – 1242 a)
In estrema sintesi, in questo e altri brani della Politica Aristotele “chiarisce – di contro al magistero platonico – che non vi sono ritmi, armonie o melodie che possono dirsi pessimi in assoluto; per lui bisogna cioè adoperare tutti i modi – sempre per procurare un sollievo accompagnato da piacere” (M. Donà, Filosofia della musica, pp. 53-54)
Rispetto a Platone, Aristotele vede nella musica “effetti liberatori e catartici di grande efficacia che devono essere tenuti in considerazione. Essa è in grado di generare un salutare distacco dalle vicende che ci affliggono, concorrendo efficacemente a liberare l’uomo dalle cure del quotidiano. In quanto arte, essa è mimesi della realtà, una realtà spesso dolorosa della quale l’uomo in tal modo riesce a prendere coscienza. Ma è una forma di mimesi assai particolare, perché non è una semplice copia di aspetti della natura, come la scultura o la pittura, bensì una realtà nuova che il musico stesso riesce a creare. In natura non esiste una realtà musicale da imitare. Ciò che il musico riesce ad imitare con i suoi ritmi e con le sue melodie è il sentimento umano, cioè quella realtà spirituale che vive nel suo animo. La musica cura dunque un sentimento, una passione, mediante la rappresentazione trasfigurata di quella passione. La passione viene guarita dalla rappresentazione di quella medesima passione, presentataci in una forma nella quale essa si svela”. (R. Sansuini e S. Sansuini, Estetica della musica, p. 24)
3.3. “La musica è una medicina per l’animo proprio quando imita le passioni”
Quanto alla catarsi Aristotele scrive: “Noi diciamo che la musica non deve mirare ad un unico vantaggio, ma di molti vantaggi, perché va coltivata sia al fine dell’educazione sia al fine della catarsi, sia per divertirsi, per rilassarsi e per scaricare la tensione. Qui accenniamo in modo generale che cosa debba intendersi per catarsi, poi ne tratteremo con maggiore chiarezza ed approfondimento nei trattati sulla poetica”. (Aristotele, Politica, VIII, 1241, b 38 ss.)
Dell’opera dal titolo Poetica ci è rimasto soltanto il Libro I, ma il tema della catarsi è trattato, in modo peraltro non approfondito, soltanto per la tragedia, in posizione centrale perché la nozione compare nella stessa definizione di cosa sia la tragedia. “Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e terrore ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”. (Aristotele, Poetica, 49 b)
Non sappiamo se della catarsi abbia scritto un’analisi più approfondita, ed espressamente riferita alla musica, in testi non giunti sino a noi (il Libro II è perduto). “Il beneficio morale che può venire all’uomo dalla musica passa attraverso il meccanismo della catarsi (…). Secondo alcuni commentatori Aristotele intendeva la catarsi come una medicina omeopatica (…). «Pietà, paura, entusiasmo» sono emozioni comuni a tutti gli uomini anche se in misura diversa; in alcuni «hanno una forte risonanza», in altri meno. Ma coloro che sono «scossi fortemente» se odono «canti sacri che impressionano l’anima, allora si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato. La stessa cosa vale necessariamente anche per i sentimenti di pietà, di paura e in genere per tutti i sentimenti e gli affetti di cui abbiamo parlato, che possono prodursi in chiunque per quel tempo per cui ciascuno ne ha bisogno; perché tutti possono trovare una purificazione e un piacevole alleggerimento». Perciò non vi sono armonie o musiche dannose in assoluto dal punto di vista etico; la musica è una medicina per l’animo proprio quando imita le passioni o emozioni che ci tormentano e dalle quali vogliamo liberarci o purificarci” (E. Fubini, L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, pp. 47-48).
Manca tuttavia una analisi più dettagliata sul meccanismo della catarsi collegata alla tragedia come alla musica. In scritti indipendenti dalla ricerca politica, Aristotele ha posto alcuni problemi di filosofia della musica associati alle sue ricerche sulla catarsi, uno dei temi centrali della sua Poetica. Trattando della tragedia nel Libro I di questa sua opera, la catarsi spiega cosa accade a teatro nell’animo dello spettatore e cosa ha di mira il tragediografo. Aristotele rimanda a questi studi per il rapporto tra musica e catarsi (si tenga presente che nella tragedia l’esperienza musicale è strettamente presente, in particolare nell’azione scenica del coro, sia per il suono che per il canto e la danza), ma di fatto non c’è in nessuna sua opera una specifica analisi della catarsi. Ecco la proposta di lettura unitaria di Giovanni Reale: “Risulta chiaramente che la catarsi poetica non è certamente una purificazione di carattere morale (giacché viene da essa espressamente distinta), ma risulta altrettanto bene che essa non può ridursi a un fatto puramente fisiologico. È probabile o in ogni caso possibile che, pur con oscillazioni e incertezze, Aristotele intravvedesse in quella piacevole liberazione operata dall’arte qualcosa di analogo a quello che noi oggi chiamiamo «piacere estetico». Platone aveva condannato l’arte – tra l’altro – anche per il motivo che essa scatena sentimenti ed emozioni, allentando l’elemento razionale che le domina. Aristotele capovolge esattamente l’interpretazione platonica: l’arte non ci carica, ma ci scarica dell’emotività, e quel tipo di emozione che essa ci procura, non solo non ci nuoce, ma ci risana”.
4. Aristosseno e la via indicata da Aristotele
Si trovano però in alcuni scritti di Aristotele indagini settoriali per studiare il rapporto tra l’animo umano e la musica. E abbiamo lasciato per ultimo questo tema in Aristotele perché ha chiaramente indicata una via poi seguito dal suo allievo Aristosseno. Ad esempio ha indicato la via in testi di questo tipo:
Perché i ritmi e le melodie, che pure sono nient’altro che suono, hanno rapporto di somiglianza con le qualità morali, mentre i sapori no e neppure i colori e gli odori? Non sarà perché sono movimenti come lo sono anche le azioni? Ora l’attività ha già di per sé carattere etico e produce ethos, mentre i sapori e i colori non fanno altrettanto. (Aristotele, Problemi musicali, 29)
Perché tutti godono del ritmo, del canto e in generale della musica? È forse perché noi godiamo per natura dei moti che sono conformi a natura? Lo dimostra il fatto che ne godono i bambini appena nati. Per abitudine noi godiamo della varietà di movimenti nati dai canti. E il ritmo ci piace perché ha un numero a noi noto e che implica un ordine e ci fa muovere regolarmente.
Il moto ordinato di fatto ha un rapporto di maggiore affinità con la natura di quello non ordinato, e perciò è più conforme a natura. La prova è che se lavoriamo, beviamo e mangiamo osservando una regola, le nostre forze naturali si conservano, si integrano e potenziano, mentre nel disordine le corrompiamo e portiamo fuori dai limiti che esse hanno propri: le malattie sono movimenti contro la natura dell’ordine che è proprio del nostro corpo.
Godiamo infine della musica, perché è mescolanza di contrari che stanno tra loro in un determinato rapporto. Ora il rapporto è un ordine, ed è nell’ordine che consiste il piacere naturale. E tutto ciò che è mescolato piace più di ciò che non lo è, specie se, trattandosi di sensazioni, il rapporto che è nell’accordo consonante conservi ed armonizzi il potere ch’è proprio di ciascuno dei due estremi. (Aristotele, Problemi musicali, 38)
“Nei Problemi Aristotele tenta di chiarire in che modo i suoni possono imitare i costumi; l’udito appare privilegiato rispetto agli altri sensi; infatti è l’unico organo che possa cogliere qualità sensibili provviste di ethos. «E difatti anche senza parola una melodia ha ethos, ma questo non vale per i colori, gli odori e i sapori» (Problemi musicali, 27). Ciò che distingue il suono dalle altre qualità sensibili è il movimento ed è questo movimento che si rivela nella successione dei suoni che noi percepiamo immediatamente. Il movimento rappresenta il ponte di passaggio, il legame indiretto tra suono ed ethos. (…) Il nostro animo prova piacere naturalmente al movimento ordinato, perché l’ordine è conforme a natura e la musica incarna e riproduce nel modo più vario attraverso i suoi ritmi e le sue armonie l’ordine naturale. (E. Fubini, L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, pp. 49-50)